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Giudizi Critici

 

L’ASTRO BREVE DI MANFROCE

 

(Articolo mancante di riferimento bibliografico)

 

 

Nicola Antonio Manfroce. Un nome che sembra una cometa in attraversamento

sul cielo musicale, brillante, intensa, brevissima. Oggi quel nome sopravvive in

arie di opere  remote,  in  intuizioni che  anticiparono  la  storia.  Una  parabola

esistenziale  e  compositiva,  quella  di Manfroce,  scritta fin quasi dalla nascita,

nove  anni  prima  che l’Ottocento avesse inizio, d’inverno, e conclusasi  in terra

napoletana  un’estate  del 1813. Ventidue anni. Appena un graffio nel tempo, che

al  genio  palmese  non  permisero di  esprimersi appieno.  Crocevia  geniale  tra

suggestioni  mitteleuropee  e  una  personale  idea  di rinnovamento dell’epica sui

canoni  francesi  dell’Opera,  ci  lascia  oggi tre composizioni operistiche.

Sufficienti  comunque, dalla  stima  dei  musicisti  che  gli sopravvissero, a scorgerne

l’immenso talento. Figlio del maestro di cappella Domenico, e di Carmela Rapillo originari

di Cinquefrondi, terra cara ad Euterpe che ebbe tra i suoi figli numerosi musicisti ai più sconosciuti,

Nicola nacque a Palmi dopo che il padre accettò  l’incarico di  maestro di cappella in quella città ma

si abbeverò alla musa nella città natale del padre. I primi a credere nelle potenzialità del figlio furono

proprio i genitori.  Nicola  presto  Palmi  per  approdare al Conservatorio  napoletano  della  Pietà dei

Turchini. “La nascita di Alcide ”, dedicata a Napoleone Bonaparte, ne fu l’esordio compositivo, l’estate dei suoi diciotto anni, nel segno di quella Francia che seguiva con ammirazione, in un tempo nel quale erano Germania e Austria a tracciare la tendenza. Nella Napoli murattiana, il giovanissimo Manfroce guadagnò rispetto, individuando una sua cifra compositiva, di nitida rappresentazione della tragedia classica, tanto da divenire il punto di riferimento per altri musicisti della sua epoca, di passaggio in città. I suoi lavori attirarono l’attenzione degli ambienti romani, e proprio nell’Urbe decise di perfezionarsi, a scuola dallo Zingarelli. La modernità di Manfroce appare da particolari come l’incontro con il committente Barbaja, che lo spinse a realizzare i tre splendidi atti di Ecuba, apice e al tempo stesso canto del cigno, composta con le poche energie che la malferma salute gli aveva lasciato. Il 13 dicembre 1812 al San Carlo di Napoli il successo d’autore fu grande, per un’opera nuova, scritta con talento, che doveva scompaire nel ricordo per rivivere nelle riprese musicali di Rossini, specie in quel Mosè e nel Barbiere di Siviglia dove ricorrono temi musicali propri di Manfroce, che allo studioso di San Giorgio Morgeto Francesco Florimo, fecero spostare la stessa paternità del crescendo rossiniano al giovane palmese. Manca uniformità di vedute, e le fonti con le quali analizzare le innovazioni di Manfroce sono ridotte, visto che proprio l’Ecuba rappresenta il vertice di una trilogia iniziata con l’Alzira a Roma, e proseguita con la rappresentazione postuma del Manfredi a Milano nel 1816. Eppure per Florimo, che lo stimava e gli voleva bene, quel giovane condannato a morire troppo presto avrebbe potuto saldare gli spiriti musicali di Italia e Germania, grazie all’intenso lavoro di studio e riflessione su Haydn e Mozart. Napoli e Vienna, incrociate con estro, sempre guardando alla Francia e alla sua peculiarità, avrebbero potuto cambiare la storia della musica. Forse avremmo avuto tragedie di gusto francese ma più moderne, e, grazie all’uso felice del contrappunto, rivestite dello stile partenopeo, del pathos greco, pur rigorose nella costruzione mitteleuropea. Per Francesco Florimo, Manfroce va senza dubbio collocato tra Paisiello e Cimarosa. Da quell’esperienza umana, si sviluppò il genio di Rossini, che dalla sua ebbe la fortuna di vivere pienamente il suo tempo. E invece, quando si muore a soli ventidue anni la memoria delle cose sfuma via. Manfroce però va ricordato perché fu compositore estremamente innovativo. È tempo di ricercare tra i documenti dell’epoca, nuove tracce della sua arte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA NOTTE DI ECUBA

 

(Articolo mancante di riferimento bibliografico)

 

 

Napoli, 20 dicembre 1812. Al Real Teatro di San Carlo si presenta per la prima volta L’Ecuba, del giovane compositore Nicola Antonio Manfroce, tragedia lirica in 3 atti e 4 quadri. Librettista Giovanni Schmidt, da Jean Baptiste Gabriel Marie de Milcent. Il successo è clamoroso. Il tempo e la morte precoce e improvvisa del compositore attenuano il senso rivoluzionario dell’opera, precorritrice di tendenze che Rossini plasmerà sulla sua musica verso un nuovo modo di intendere il melodramma. Tra ottobre e novembre 1990, il capolavoro di Manfroce viene rappresentato al Teatro Chiabrera di Savona. La registrazione, pubblicata dalla Bongiovanni il 27 novembre 1992 con numero di catalogo BON 2119 20, e ripubblicata tre anni più tardi, sarà trasmessa molti anni dopo, da Radio Rai. Un’incisione oggi rara, ma non introvabile. La messa in scena unì il vigore del Coro Francesco Cilea di Reggio Calabria al prestigio dell’Orchestra Filarmonica Italiana. La soprano Gladys De Bellida (Ecuba) e la mezzosoprano Anna Caterina Antonacci, (Polissena), con i tenori Dino Di Domenico, (Priamo) e Francesco Piccoli, (Achille), la soprano Silvia Piccollo (Antoloco e Teona), e il tenore Ezio Pirovano (un duce greco) ne furono interpreti, diretti con grande passione dal compianto Massimo De Bernart, revisore e direttore d’orchestra, scomparso il 2 marzo 2004, deciso a spendere le ultime energie per la musica, completando il dittico Vida breve-Cavalleria rusticana, prodotto dal Cel di Livorno per Città Lirica, presentato all’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Solo dieci giorni prima, per il ciclo“L’Opera Lirica”, sulle frequenze di Radio Rai era andata in onda quella applauditissima versione. Sabato 21 febbraio 2004 era piena notte, quando l’iniziale sinfonia di note moderne e potenti preannunciava la tragedia di Ecuba. Come in un film, un crescendo di tensione e pericolo, con il contrappunto del coro alla maniera greca, e dialoghi di fede e inconsolabile disperazione. Fiammate di amore, vitalità, gioia opposte al Fato. Un veloce degradare dalla luce al buio nell’assolo del tenore Di Domenico in “Riposo in te le mie speranze” erano la notte di Ecuba ma anche di un intero Paese che in quei giorni viveva Tangentopoli. All’alba, il miracolo di sottrarre appena per un giorno all’oblio del tempo la grande musica di Manfroce si era compiuto.

 

 

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