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Giudizi Critici

 

NICOLA MANFROCE  E L'ECUBA

(Fernando Battaglia)

 

      La brevissima parabola umana ed artistica di Nicola Antonio Manfroce  

(Palmi, 20 febbraio 1791-Napoli, 9 luglio1813)  ha  sempre  interessato  ed 

affascinato gli studiosi della storia della musica italiana, soprattutto quelli

che hanno particolare riguardo nei confrontidell'epoca prerossiniana.

In  tutti  i  dizionari,  repertori  ed  enciclopedie  musicali  il  nome  di questo

geniale  sventurato  musicista   si  trova  citato  sempre  con  espressioni  di

rammarico  per la sua immatura  fine,  a  causa della quale venne troncato anzi  

tempo  il  naturale  sviluppo  di una  personalità  di eccezionale rilievo  e  ricca di 

promesse.

Manfroce si era accostato allo studio della musica fin dalla più tenera età avendo come

primo  docente il padre Domenico, maestro di cappella  alla Chiesa Madre di Palmi; il ragazzo

aveva  subito  rivelato  una disposizione con un talento naturali non comuni, tanto che, a soli

dodici anni - tramandano i biografi coevi, primo fra tutti Francesco Florimo - si era azzardato a scrivere una Messa che impressionò favorevolmente i competenti. Non gli fu peraltro difficile trovare due facoltosi e generosi concittadini che si presero cura della sua più regolare preparazione di musicista favorendo, a proprie spese, il suo ingresso nel Conservatorio partenopeo della Pietà dei Turchini, in quegli anni uno dei più reputati d'Italia per l'eccellenza del corpo insegnante. Entrato nel 1804  a far parte del glorioso istituto dove si erano formati illustri rappresentanti della scuola napoletana come Leonardo Leo, Gaspare Spontini, Stefano Pavesi, Pietro Raimondi e dove entrerà dopo pochi anni Saverio Mercadante, il giovanissimo Manfroce studiò  armonia con Giovanni Furno e contrappunto  con Giacomo Tritto.  Dopo alcuni anni di severa applicazione, si recò a Roma per completare la sua formazione con il celebre Nicola Zingarelli (1752-1837)  che aveva alle spalle una gloriosa carriera di compositore e di didatta e che in quegli anni dirigeva la Cappella di San Pietro. Proprio a Roma, in quel Teatro Valle allora molto attivo sul versante musicale, Manfroce fece la sua prima prova come operista, presentandovi il 10 settembre 1810 una Alzira, su libretto di Gaetano Rossi tratto dall'omonima  tragedia di Voltaire; un soggetto che trentaquattro anni dopo indurrà Giuseppe Verdi a cimentarvisi in occasione del suo primo approdo al Teatro San Carlo. L'Alzira piacque, soprattutto per la fresca ed originale vena melodica della quale erano copiosamente fornite le arie ed i pezzi d'insieme,  ed ebbe un certo numero di repliche in teatri dell'Italia centro-settentrionale, a Firenze, a Bologna, a Milano,  Monza e Venezia; a Napoli l'opera  giunse postuma nel  1819.

Sembra che questo primo spartito indicasse chiaramente la propensione di Manfroce per la grande opera seria italiana della fine del '700: giusto in quegli anni al San Carlo  furono presentate pregevoli edizioni degli Grazi e Curiazi di Cimarosa, di Edipo a Colono di Sacchini e dell'Aristodemo di Pavesi. Nella stagione 1808-09 era infine approdata a Napoli  La clemenza di Tito di Mozart e ci piace immaginare che il giovane maestro fosse attento e perspicace ascoltatore della produzione contemporanea più accreditata,  pronto ad integrare con riflessioni personali l'apprendimento  scolastico ed a sottoporre ad attenta verifica i consigli di un didatta notoriamente legato alla tradizione accademica come Zingarelli. Dopo il successo di Alzira,  Manfroce fece ritorno a Napoli dove, per speciale concessione, conservava il domicilio presso il Collegio e 1'8 settembre1811 conobbe la Vestale di Spontini, giunta al massimo teatro partenopeo quasi certamente per l'iniziativa della corte "francese" di re Gioacchino Murat. La tragedie lyrique spontiniana suscitò un'enorme impressione sul maestro calabrese e lo indusse a seguirne senza indugio le orme. Malgrado fosse già gravemente  minato dal male che lo condurrà così prematuramente  alla tomba, Manfroce si mise al lavoro con febbrile accanimento, portando rapidamente a termine quello che sarà il suo capolavoro ed il suo testamento artistico.

Ecuba andò in scena al San Carlo il 13 dicembre 1812 con un'ottima compagnia di canto della quale facevano parte i soprani Maria Marchesini (Ecuba), Marianna Borroni (Polissena), ed i tenori Manuel Garcia (Achille) ed Andrea Nozzari (Priamo; l'accoglienza  fu entusiastica e se ne ebbero quattordici recite. Il testo era stato approntato da Giovanni Schmidt (Livorno 1775 - Napoli 1835 circa), che lo aveva tradotto e rimaneggiato da un libretto originale francese di un certo M. Mi!cent. Lo Schmidt era allora il librettista principe dei teatri napoletani e due anni  dopo fornirà a Gioacchino Rossini il libretto dell'Elisabetta  regina d'Inghilterra per l'esordio  del pesarese nella capitale delle Due Sicilie.

Non ad Euripide, come si potrebbe pensare, è ispirato il soggetto,  ma ad un'autentica tradizione in parte modificata ed adattata per le scene liriche, secondo  la quale il re Priamo,  nonostante la ferma opposizione della moglie Ecuba, concede ad Achille la mano della figlia Polissena, confidando nella riconciliazione  tra Troiani e Greci. Ecuba, che non sa perdonare ad Achille la morte del figlio Ettore, tenta invano di indurre la figlia a sopprimere il  promesso sposo, ma l'irruzione a tradimento dei Greci in Troia nel corso della cerimonia nuziale, le consente ugualmente di raggiungere  il suo scopo con l'aiuto dei Troiani a lei fedeli. L'opera si conclude con la morte di Polissena, sacrificata per prima dai Greci penetrati in città e con la distruzione di Troia. Il giovane musicista, alle prese con un tema siffatto, peraltro stranamente poco sfruttato, essendo stato musicato in precedenza soltanto dal torinese Ignazio Celionat (1730·1784) nel 1769, vi si dedica con fervore appassionato,  rivestendone i versi con una musica scabra, essenziale, che nulla o quasi concede ai risaputi lenocini belcantistici o virtuosistici, ma che tenta di fissare figure e situazioni in forti immagini sonore. Ricco di fervida immaginazione e dotato di felicissimo intuito drammatico, Manfroce, dopo una severa e convulsa sinfonia in re minore - largo e allegro - buttata giù quasi di getto in uno stile che più spontiniano non si può immaginare, allinea,  non la consueta teoria di arie collegate da lunghi recitativi, ma vaste scene nelle quali le arie e  gli ensembles germogliano spontaneamente dai recitativi stessi, questi ultimi tutti accompagnati a grande orchestra, cioè con archi e fiati. Ne consegue una impressione di rapidità, coerenza nell'azione e di straordinaria tensione emotiva, essendo il tutto vivificato e come rinvigorito  da un melodizzare dì potente felicità inventiva. Le arie, collocate in genere al centro delle ampie scene, sono concepite secondo lo schema bipartito andante-allegro: su tutte brilla quella di Polissena in do minore "Oppresse dal dolore .., proprio  all'inizio  dell'opera. Questo brano solistico - l'unico  in un solo tempo, allegro,  di tutto lo spartito - è emblematico dello stile di Manfroce: dopo sedici misure introduttive, fiorisce  una prima stupenda  frase in mi bemolle maggiore, "Ma nei bei rai d'Achilie"  il cui struggente e bellissimo disegno melodico discendente è in parte ripreso dai soprani primi e dall 'orchestra nel coro "De'  nostri Avi, o sommo Dio" sempre nel primo atto. Un secondo tema in do maggiore, con il soprano che dialoga con l'orchestra, conduce alla rapida conclusione di questa pagina, una delle più suggestive della letteratura rnelodrammatica italiana primottocentesca.

Di notevole interesse sono anche l'aria  di Priamo in si bemolle maggiore, ancora nel primo atto, "Pari a te nel cor  la voce”, e l'aria di Ecuba  al secondo atto “ Figlio mio, vendetta  avrai",  in fa maggiore, che presenta  l'inconsueta   caratteristica  di essere preceduta  da un bell’assolo di  arpa di otto battute.

Di buona fattura, sempre  nel secondo  atto,  sono il duetto Achille-Polissena "Ambi avrem fino alla morte” ed il concertato finale "Sì tenero  amante ». Nel terzo  atto, oltre  alla bella aria di Polissena  “ Luce  detesto”, sono da segnalare il drammatico terzetto  Ecuba-Polissena-Priamo

“Ciel che sento, o rimorso, o tormento! “, e, soprattutto, l'allegro assai orchestrale in do minore con il quale, contro ogni tradizione, si conclude  l'opera. Questa originale soluzione  conferma  la tendenza alla sperimentazione, vivissima  in Manfroce  e ad essa, come giustamente  osserva  Giovanni  Carli Ballola,  il maggior  studioso di questo  singolare  “caso “, guardò  certamente  Rossini quando concluse  con  il medesimo procedimento il suo Mosè in  Egitto. 

Tutta  la partitura è percorsa  da un'atmosfera  cupa e corrusca,  ed è realizzata  con  un linguaggio asciutto e  fremente;  concorrono  a questo  esito una  rilevante perizia di strumentatore ed una condotta armonica per quei tempi insolitamente mobile ed irrequieta. L'orchestra  che,  malgrado  la sua ricchezza timbrica, non  prevale mai sulle voci, sembra  talora sostituirsi ad esse  nella esibizione della melodia, della quale si  fanno di volta in volta portatori la bianca voce  del flauto, il  piccante  suono dell’oboe, i corni, i violini, i violoncelli.

Singolare esperienza, dunque, questa del giovane maestro di  Palmi, che  sopravvisse di soli sei  mesi al successo della sua creazione: un'esperienza    che, se la sorte  non si fosse mostrata  così severa, avrebbe forse  consentito alla musica italiana dell’ottocento di sperimentare ipotesi creative   altrettanto stimolanti di quelle alle quali  l'avrebbe di li a poco avviata  il genio solitario ed irresistibile del Cigno di Pesaro.

 

 

(dal Libretto dell'Opera Ecuba - Ed. Bongiovanni di Bologna)

 

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