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Frammenti di giudizi critici su

Nicola Antonio Manfroce

 

(a cura di Carmelo Neri – carmeloneri43@yahoo.it)

 

          

            Si riportano alcuni giudizi critici su Manfroce, espressi in prevalenza da famosi

musicologi e storiografi.  La sua  fama  è  ormai ben consolidata e crescerà ancor più

quando  i  suoi lavori saranno meglio indagati per capire il reale influsso esercitato su

Rossini, e su qualche altro operista, come, ad esempio,  Mercadante, che ha dato inizio

alla  sinfonia  (v. su Internet) della Donna Caritea,  regina di  Spagna  alla stessa maniera

della sinfonia dell’Ecuba.

          Per quanto riguarda il Pesarese, è ben noto che non disdegnava di attingere da altri autori

ciò che gli serviva per abbellire i suoi melodrammi; e, se poco stupisce quando nelle sue note ricorda 

Mozart, Haydn, Paisiello o Cimarosa, meraviglia di più quando dimostra di aver ricavato qualche idea dalle

musiche del Palmese, e soprattutto dall’Ecuba. Di ciò si sono avveduti anche autorevoli storiografi

dell’Ottocento, come Fétis e Florimo, e lo hanno evidenziato nei loro lavori. Stendhal, che nella sua biografia rossiniana ha menzionato Manfroce (col cognome storpiato in “Manfrocci”), non esitò a contestare al celebre autore del Barbiere i frequenti prelievi dall’altrui produzione, aggiungendo che, «come tutti i ladri, sperava di tener celati i suoi furti».

        Il suo rifarsi a Manfroce è più appariscente nei punti appresso indicati:

 

  • nel finale primo del Barbiere ha riproposto nella parte iniziale (“Mi par d’esser colla testa...”) un motivo (“Da quel fonte – che ha l’onte scolpite...”) ricavato dal finale secondo della Vestale, mentre nella parte successiva, quando il ritmo diviene più affrettato in “E il cervello poverello...” la musica ricorda quella del quintetto “Là, nel tempio omai si vada”, che è nel finale secondo dell’Ecuba. Ciò è stato notato anche da Florimo che ha scritto: «Rossini da questa frase musicale ha fatto la bellissima stretta del finale primo del Barbiere di Siviglia»;

  • Un motivetto esistente nel terzo atto dell’Ecuba, in corrispondenza del coro “A grave  prezzo amici...”,  si ritrova nel finale primo de Il turco in Italia, nel breve accompagnamento orchestrale collocato dopo il coro, appena termina di cantare le parole ”Quando sono rivali in amor”;

  • La piccola conclusione orchestrale che chiude il finale del secondo atto dell’Ecuba si ritrova, tale e quale (anche per quanto riguarda la durata), al termine dell’ultimo atto dell’Elisabetta regina d’Inghilterra;

  • Nel finale del Mosè, nella parte affidata ai soli strumenti, metà musica è del Manfroce, prelevata dalla “sinfonia descrittiva” al termine del terzo atto, e nella rimanente parte, che è poi quella che chiude l’opera, il motivo rossiniano è diverso e bisogna pur dire soverchia per bellezza e dolcezza quello del Palmese;

  • L’illustre critico Giovanni Carli  Ballola ha fatto notare che «Nel duetto “Ambi avrem fino alla morte” egli [Manfroce – ndr] realizza forse la più superba pagina in assoluto uscita dalla sua penna: una sottile, profonda sensualità serpeggia come repressa nel purissimo disegno di quel cantabile iniziale, il cui virtuosistico “bel suono vocale”, di una plasticità canoviana, rammenta quello del famoso duetto “Dove son io?”[atto II – scena 2° - ndr] dell’Armida rossiniana, per sfociare negli slanci quasi weberiani dell’esaltata cabaletta; il tutto nel segno di quella classica concisione, di quella venustà, di quell’incisiva semplicità che non è mai semplicismo (basti osservare con quanta ingegnosità nell’ “Andante”, il giovane musicista sa variare il supporto orchestrale) e in virtù delle quali, a tempo debito, Manfroce sa prendere le distanze dal suo incombente modello, accostandosi a Rossini, e in cui, in definitiva, consistono i tratti più personali della sua arte»;

  • Florimo ha osservato che il duetto “Quel pianto che ognora...” tra Alzira e Gusmano, nel primo atto dell’Alzira, «è tutto nella maniera che poi fu introdotta da Rossini, si per forma come per cantilene e struttura d’orchestrazione»;

  • Alessandro Parisotti nella sua trascrizione del brano “Povero cor perchè” in Piccolo album di musica antica, pubblicato dalla Ricordi, ha osservato che in esso «lo stile del preludio fa presentire quello del sommo Pesarese».

 

        Ci sarebbe altro da aggiungere, perché alcune novità attribuite a Rossini vanno assegnate a Manfroce che lo ha preceduto. Eccone un esempio: Ugo Riemann, autore di Storia Universale della Musica, ed. S.T,E,N, Torino 1912, p.401) afferma: «Nella sua opera «Otello» Rossini abolì per la prima volta completamente il recitativo secco, scritto solo col basso numerato», ma in ciò il Pesarese non ha merito particolare, essendo verosimile che, trovandosi in quel tempo a Napoli, abbia avuto occasione di esaminare la partitura dell’Ecuba, scritta quattro anni prima senza alcun recitativo secco. È pertanto nel vero il musicologo belga François Joseph Fétis quando, s.v. Ecuba, nel suo Catalogo della Biblioteca Reale di Bruxelles (ed. Muquardt, Bruxelles, 1877, p. 324) osserva: «On y remarque une multitude de nouveautés de style, l’instrumentation et la forme des morceaux, qu’ont une analogie saisissante avec les compositions de la première manière de Rossini».

         Eppure il Pesarese, benché in debito di riconoscenza verso lo sventurato collega, che non conobbe di persona, fu incapace di un piccolo atto di generosità, e, allo Stendhal, che l’interrogava sul merito dei compositori suoi contemporanei, indicò in Raffaele Orgitano «il solo talento che avrebbe potuto bilanciare la sua reputazione e farsene una uguale».

        

 

♦ CARLO GERVASONI, Nuova teoria di musica ricavata dall’odierna pratica per ben apprendere la musica a cui si fanno precedere varie notizie storico-musicali, stamperia Blancon, Parma 1812, pp. 153-4 .

 

«Nelle sue composizioni si trova un’armonia variata e pittorica, non che una melodia deliziosa e soave. L’impiego degli strumenti da fiato, il lavoro del basso continuo, il contrasto delle varie parti, tutto in lui è olte modo ammirabile. […] Egli è il primo, che per esprimere certe passioni, si è servito di nuovi accordi, come si può mostrare nella sua famosa La Nascita d’Alcide eseguita nel Real teatro di s. Carlo alla presenza degli Augusti Sovrani in occasione del giorno onomastico di S.M. L’Imperatore Napoleone; e segnatamente nella musica incantatrice dell’aria: No che non può difenderlo (veggansi le osservazioni sopra quest’aria nell’ultimo capo di quest’Opera). In somma le sue composizioni dimostrano il gusto il più raffinato della nostra Musica.»

 

 

♦ PIERO MARONCELLI , Notizia intorno agli studi ed alla immatura morte del musico maestro Nicolò Manfroce (1820 - v. Bibliografia).

 

         «Oh così non fosse stato per la gloria d’Italia, chè Manfroce era il solo potente a salvarla dalla corruzione in cui ella s’è ora, per la maledetta puzza intrusa in ogni lato dello stile barocco, de’ modi falsi e del pessimo canto d’una famosa cornacchia [intende Rossini – ndr] che tutta coperta di penne altrui si dà ad intendere di fare, o quando del ricco pavone, o quando dell’innocente colomba, o quando dell’ardita aquila volante. Cotali nobilissime spoglie non sue le si trasformano addosso in ismancerie e moine e turpissime lascivie, e ti fanno di strana  paruta per questo che quelle alla coda, nè so nè veggo io quanto ancora cotale isfacciata ladra e ribalda s’avrà il favore della gente, il quale per chi non à l’arte è spesse volte segno di vera scienza.[...] Oh si che Manfroce avrebbe salva l’Italia dalla corruzione presente! Che egli avea stampate nella mente per man di Dio le forme del bello, nè egli avrebbe sofferto l’animo di mirarle siffattamente contaminate.»

 

♦ Francesco Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatori, Morano, Napoli 1881, in biografia di Manfroce, vol III, pp, 102-7.

 

         «Dotato di tutte le qualità che si richiedono a formare un gran compositore, animato da quello spirito d’invenzione che spinge al progresso, evitando le anomalie, sembrava egli destinato a produrre nella musica quella rivoluzione che ora ammiriamo. E le sole due opere teatrali che giunse a comporre dimostrano chiaramente a qual punto sarebbe arrivato se non gli fosse venuta meno la vita prima di giungere all’anno vigesimo terzo di sua età. Se la sua morte è stata una sventura per la nostra scuola, nol fu però pel di lui nome, che deve necessariamente essere tenuto in gran conto nella storia dell’arte, e confido  di far qui rivelare come le due sole opere di un giovinetto abbiano servito di primo scalino a quella che chiamiamo musica del secolo decimonono.»

♦ M. DOICO in «Numero Unico», pubblicato a Palmi nel 1913, in occasione del primo centenario della scomparsa di N. A. Manfroce.

 

      «Nelle opere del Manfroce non solo si rivela uno studio accurato; ma anche una forte tendenza alla musica, quella naturale disposizione che crea i grandi genii, in cui arte, pensiero, spirito, si abbracciano e si sublimano nella più alta concezione del bello. Manfroce non ebbe il tempo necessario per compiere gli studi che lo avrebbero reso sommo, e che certamente gli avrebbero assicurato il posto fra i grandi dell’arte musicale. Eppure nelle sue opere egli è veramente geniale, e vi si scorge un certo che di sfogo di voler dare alle note tutti i suoi entusiasmi, tutti i suoi scatti di irresistibile forza; si scorge quella fantasia ispirata all’arte, quello spirito fremente di giovanile calore, quell’anima piena di delicati sentimenti, che rendono dolcissime le note come se scaturite dal fondo del cuore. [...] L’originalità delle forme, il nuovo impasto di armonie, la soavità del pensiero sono le migliori caratteristiche del Manfroce. Egli può ritenersi il vero precursore del Rossini nell’arte musicale del secolo XIX.»

 

♦  RENATO BOSSA in Enciclopedia La Musica, ed. UTET, Torino, 1970, s.v, “Manfroce”, pp. 609.

 

        «Nonostante la brevità della carriera compositiva (stroncata dalla morte a soli 22 anni), M. rappresenta un artista di indubbio interesse e rilievo nella stagione della Napoli «francese» dell’inizio dell’Ottocento. [...] è significativa la sua predilezione per quella linea Sacchini-Traetta-Spontini che gli si rivelò in particolare all’ascolto della Vestale di quest’ultimo nel 1811. Tale incontro, che si pone non a caso a fare da spartiacque tra le due esperienze operistiche (Alzira e la più rilevante Ecuba), servì a fargli scegliere come modello l’opera di tipo francese. [...] Tanto maggiore è allora il coraggio innovativo del giovane M. che, uscito da quella tradizione, trova la forza di voltarle le spalle e volgersi a modelli diversi. Non che la sua maturità fosse evidentemente quella dello Spontini maggiore, sicché gli studiosi non hanno difficoltà a notare riuscite diseguali (un’esagerazione dell’afflato epico che volge al magniloquente, un’orchestrazione ampia ma non sufficientemente differenziata, la ricerca insomma non elaborata del modello), accanto a qualità d’invenzione melodica e di controllo formale. Ma, se inutile sarebbe soprattutto in questa sede cercare la riuscita, qui minore, lì maggiore, dei singoli momenti (comunque tali da indurre ampie quanto vane aspettative sui probabili frutti di una carriera futura), è più importante rilevare le grandi novità costruttive: il recitativo sempre accompagnato dai fiati, la costruzione per scene con aria al centro, dove il climax drammatico era maggiore, e non alla fine; la strumentazione densa, con l’orchestra che spesso s’accolla l’onere drammatico tutto intero. Tale il caso, ad esempio, del finale ultimo di Ecuba, presumibile modello per quello rossiniano del Mosé.»

 

♦ PAOLO ISOTTA ne I diamanti della corona (1974 -v. Bibliografia), pp. 209-11.

 

         «Un esempio del gusto completamente nuovo nel dramma serio, da parte di un compositore della stessa generazione di Rossini, si ha con Nicola Manfroce, e specialmente con la seconda delle due sole opere di questo sfortunato musicista, l’Ecuba  ...fatto si è che l’opus maius del giovanissimo musicista, quest’Ecuba del 1812, è qualcosa di notevolmente diverso da ciò che avrebbe dovuto scrivere un autore di quell’età, con quegli studi alle spalle e che non fosse stato all’estero; e lo è in modo puntiglioso e ricercato, tale da non lasciar adito a dubbi. Ecuba è scritta quasi completamente nel gusto della tragédie-lyrique. Naturalmente filtrato attraverso Spontini e ciò vuol dire che in essa si verifica  quel che puntualmente si verificò ogni qual volta un autore di origine napoletana si accostò a quel «genere», di vivificarlo con una invenzione melodica di solito straripante.»  

 

            

♦ GIOVANNI CARLI BALLOLA in Il primo Ottocento, pp. 403-4, vol. I - Storia dell’opera (1977 - v. Bibliografia).

 

         «Ecuba è un coacervo sperimentalistico di intenzioni realizzate a metà in una febbrile ansia  di conquista stilistica. Manfroce affastella tutto ciò che gli riesce d’arraffare dai generosi serbatoi spontiniani: eccitato da quell’incedere marziale e rullante di molte pagine, che giustamente gli suona inedito, butta giù una sinfonia quasi commovente in quel volere essere più spontiniana di Spontini medesimo, orchestrandola in una maniera densa, piena e strepitosa. Seguono, in luogo dei vecchi  «numeri», grandiose scene per soli e coro inframmezzate da recitativi strumentati per lo più a orchestra piena (ossia con l’impiego dei fiati in aggiunta ai soli archi ordinariamente usati per il recitativo obbligato); va da sé che il recitativo secco, ancora presente in Alzira, qui è totalmente bandito. Nei brani solistici, Manfroce si attiene a una vocalità sfrondata ma non affatto nuda di volute belcantistiche, la cui inconfondibile impronta napoletana aspira all’incisiva durezza del declamato alla francese: le arie seguono di regola la nuova forma in due tempi (largo-allegro), ma non mancano espressioni più concise; bellissima fra tutte, la cavatina di Polissena, «Oppresse dal dolore», posta ad apertura d’opera dopo un possente recitativo d’introduzione. Trascinato dall’entusiasmo e dal fascino del nuovo, Manfroce non esita a scavalcare lo stesso modello nel sorprendente finale terzo, che accumula tutti gli effetti vocali e strumentali di cui il melodramma più evoluto del tempo potesse disporre (con qualcosa di più nell’orchestra, arricchita di quattro corni, tre tromboni e serpentone), e che, in dispregio al lieto fine osservato da Spontini, termina con la morte violenta di Polissena e l’anatema scagliato da Ecuba sui Greci in un forte recitativo concluso con un rapinoso epilogo in do minore per sola orchestra. Gli stilemi tratti da Spontini, ancorché non compiutamente assimilati (ché il povero Manfroce non ne ebbe il tempo) sono dominati da una personalità vivacissima e forte pervenuta alla fase cruciale della propria maturazione, e piegati ad una coerente ed unitaria concezione drammatica, vigorosamente abbozzata. Melodramma cupo e congesto, teso in una concitazione tragica corrusca e sonante come un verso foscoliano, spoglio di edonistiche mollezze persino nelle parti decorative, Ecuba è frutto di una coscienza creativa che si erge isolata nel mediocre panorama spirituale del tempo; ed è la sola opera del passato prossimo cui Rossini (quello di Mosè in Egitto e di Ermione, in particolare) possa aver guardato con serio interesse.»

 

♦ CLAUDIO CASINI in Storia della musica – L’Ottocento II , vol. III, EDT, Torino, 1978, p. 122.

 

        «Manfroce, scomparso a ventidue anni, ha lasciato due opere: l’Alzira (1810) e Ecuba (1812); nella seconda, in particolare, si compendia la condizione di questo musicista che subì l’influsso della Vestale di Spontini nella rappresentazione napoletana del 1811, nell’ambito della cultura musicale francese diffusasi nella città partenopea sotto il regno di Gioacchino Murat: Ecuba espone non soltanto l’imitazione della tragedie-lyrique spontiniana, ma anche un suo sviluppo, meglio sarebbe dire ampliamento ed arricchimento di spessore, dovuto al giovanile empito di doti brillanti e precoci.»

 

♦ MARCELLO PASSERI, Aveva innovato prima di Rossini, in «La Gazzetta del Sud», Messina 13 ottobre 1979.

 

         [...] È vero che nel suo purtroppo minuto catalogo di opere, accanto a talune composizioni sacre, vi sono sinfonie e composizioni pianistiche, tra cui è da ricordare l’accattivante partitura Tema con sette variazioni sopra un tema di Paisiello, ma è soprattutto nell’area melodrammatica che il suo nome viene ad eccellere immediatamente e tanto da imporsi all’attenzione della critica e del pubblico. [...] Ecuba (commissionatagli niente di meno che dall’onnipotente impresario Domenico Barbaja, per il San Carlo) è la creazione nella quale  perfettamente si delinea la personalità affascinante del giovanissimo compositore palmese, con tutte quelle presenze estetiche che non si possono tacere e che precedono mirabilmente le innovazioni rossiniane e belliniane. [...] ma ciò che più conta è sottolineare che il processo tecnico di Nicola Antonio Manfroce consiste precisamente nel creare delle melodie semplicissime, concise ed incisive,  vero miracolo di sintesi enunciativa (si pensi a Vivaldi, a Beethoven) con una vis sentiendi per cui ad una concezione musicale, per il teatro, architetturale e plastica, a quei tempi in gran voga, il Manfroce sostituisce una concezione drammaticamente e psicologicamente tesa; è proprio là ove maggiormente si spoglia di ogni inevitabile prolazione di note ornamentali, là massimamente il dettato, nella  sua stessa stringatezza, diviene scultoreo, per così dire graffiante. A ciò si aggiunga, e a noi pare di somma importanza,  la cosciente infrazione dell’unità tonale, a tutto vantaggio appunto di una varietà espressiva, la quale viene a generare ed a raddensare, per così dire, un turgore di coloratura d’emozioni e di stati d’animo di rara efficacia. [...]

 

 

♦ GIAmpiero TINTORI, Bellini, ed. Rusconi, Milano, 1983, pp. 168-9.

 

           La tragedia di ambiente classico aveva cominciato a vivere da Cherubini in poi (i precedenti settecenteschi sono il più delle volte mere esercitazioni vocalistiche); anche musicalmente i precedenti cherubiniani e spontiniani ebbero il loro influsso su Ecuba di Nicola Manfroce (1812) e sullo stesso Bellini.

 

 

♦ ROLAND MANCINI, in Larousse Rizzoli, Enciclopedia della musica, Milano 1990, s.v. “Manfroce”.

 

           «Questo musicista fu uno degli autori più originali del periodo prerossiniano. [...] Più che nella musica da camera, nelle composizioni sacre e nell’opera teatrale Alzira (Roma, 1810), è nell’Ecuba, rappresentata a  Napoli nel 1812, che si riscontra l’apice di una evoluzione di cui Rossini avrebbe ben presto raccolto i frutti; segnaliamo soprattutto l’ouverture di eccellente potenza, una tendenza alle strutture aperte, l’uso esclusivo del recitativo obbligato dove predominano i fiati, un’orchestra arricchita da quattro corni e tre tromboni, una padronanza quasi mozartiana degli effetti vocali e, fatto insolito, una lunga conclusione orchestrale dopo la morte dell’eroina.»

 

♦ HAROLD ROSENTHAL – JoHn WALLACE,  Dizionario enciclopedico dell’opera lirica, (trad. di Luciano Alberti), Firenze 1991, s.v. “Manfroce”

 

        [...] In essa [Ecuba-ndr] si nota, prima che in Rossini e parallelamente ai tentativi di Mayr, un rinnovamento notevole del genere serio, fondato sull’ampliamento dell’ouverture, sull’uso esclusivo del recitativo “obbligato”, sull’importanza del ruolo dell’orchestra soprattutto a livello degli archi e degli ottoni (questi ultimi rinforzati) e, innovazione totale, su un lungo finale sinfonico a conclusione dell’opera.

 

♦ ANTONIO GARRO, Ecuba in scena a Cosenza per riscoprire Manfroce, in «Gazzetta del Sud», Messina 23 ottobre 1990.

 

         «C’è dentro, già, alle primissime note dell’ouverture quando si avvia il dialogo tra i fiati e i violoncelli (ma anche successivamente, ad esempio nell’aria di Priamo “pari a te nel cor la voce”) il Donizetti dell’Elisir d’amore. C’è anche nell’aria di Achille “miei voti appaga” il Bellini della Sonnambula. C’è ancora, a ben guardare, perfino Verdi, conil peso affidato al coro e gl’impeti di certe concitazioni. C’è sempre Rossini per il frequente ricorso agli slanci sinfonici…»

 

 

♦ RENZO ALLEGRI, Ecuba è risorta a Savona, in «Gente» Roma 6 dicembre 1990.

 

         «Ecuba è un lavoro di novità. In essa si avvertono anticipazioni strumentali e vocali che verranno perfezionate da Rossini, Bellini e Donizetti. In questo spartito Manfroce per primo fa uso dei “fiati” in orchestra.»

 

♦ GIANCARLO LANDINI in L’opera, Milano, marzo 1993, n. 65, p. 90.

 

        «Tra le scoperte operate dall’Opera Giocosa di Savona negli ultimi anni, Ecuba di Manfroce è senza dubbio una delle più interessanti, se non persino la più interessante. Al di là del valore culturale della riproposta, che ci permette di gettare uno sguardo nel buio fitto della produzione neoclassica, della quale conosciamo ben poco (basti pensare che giace nell’oblio tutto quanto scrisse per il teatro Nicola Zingarelli), Ecuba presenta dei valori drammaturgici e musicali che la rendono valida di per sé.

     Il giovane e sfortunato musicista calabrese, destinato a una prematura morte, costruisce un’opera dall’azione serrata ed incalzante, la cui musica si regge in armonico equilibrio tra le esigenze della melodia, proprie della scuola napoletana, e quelle del dramma, sotto la spinta dei modelli gluckiani (ricordiamo che alla famosa «riforma» del cavaliere dell’Alto Palatinato contribuì anche un compositore napoletano come Traetta) e Spontini (Manfroce scrisse la sua opera sotto la forte impressione prodotta dalle recite sancarliane della Vestale), il giovane musicista approdò ad un risultato di indubbio valore e efficacia. Il pubblico di allora riconobbe i pregi del lavoro e gli tributò un grande successo: perciò bisogna riconoscere alla Bongiovanni Il merito culturale [si riferisce alla registrazione dell’opera in CD – ndr] di avere accolto nella sua collana «Novità del passato» questo titolo dimenticato.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giudizi Critici

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