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Giudizi Critici

 

NICOLA ANTONIO MANFROCE 

(Giovanni Carli Ballola)

 

     Il vuoto che la storiografia musicale moderna  avverte  in  Italia  nel periodo  che  

va  dall'esodo  di Cherubini  e  di  Spontini,  la  scomparsa di Cimarosa, il silenzio di

Paisiello  fino  all'avvento  di Rossini,  non fu affatto  sentito dai  contemporanei, i

quali   si   trovarono   a   fare   le   loro   scelte   in    mezzo   a    una    imbandigione

melodrammatica  straordinariamente  varia  e almeno quantitativamente cospicua.

Le rivoluzioni  europee  e  il maremoto napoleonico  avevano gettato sulle fin troppo

tranquille  spiagge  italiane una quantità di  oggetti peregrini che il pubblico correva a

raccogliere  con  la vivace curiosità che  suscitano le cose nuove:  e tali erano le plèce  à

sauvetage  e  la  tragèdie lyrique  francese  o  francesizzante, rispetto  alla  vecchia opera

italiana tradizionale, buffa o seria. Insieme con Giovanni Simone  Mayr, due altri tedeschi più

o meno italianizzati, Peter von Winter e Joseph  Weigl,  contribuirono non poco, sopratutto in alta Italia,

ad  assuefare  gli  orecchi  ad  un  suono  e  ad  un  "peso" orchestrale,  ad  un  gusto  armonico  che non

erano precisamente gli stessi praticati da Zingarelli e dagli altri epigoni di  tradizione napoletana.

Una  geografia  interna  del  melodramma minore italiano nell'Ottocento è ancora possibile, e  si  basa non

tanto sulle  "scuole"  che ormai  hanno  confuso  le loro  acque  e la cui connotazione  stilistica  appare  problematica già a Settecento inoltrato; quanto sul sussistere di tradizioni  teatrali cittadine  e regionali, più o meno esposte ad influenze esterne, e più o meno disposte ad accettarle. Il relativo  isolamento  culturale  che in questo  periodo caratterizza il Regno  delle  Due  Sicilie,  se da  una  parte  favorisce  il germogliare in serra di una singolarissima civiltà strumentale (particolarmente importante per la formazione  di un'autoctona  scuola  pianistica che vanta  tuttora  legittimi  eredi); dall'altra fa del vetusto Conservatorio la roccaforte sgretolata di una tradizione che vive di ricordi nel culto di un epigonismo che sa più di rimpianto patetico per un passato troppo indimenticabile che di orgoglioso dispregio del presente.                                                    

In tale contesto storico, sociale e culturale, l'opera seria perviene alle soglie dell'Ottocento sensibilmente arricchita delle  spoliazioni  operate  sotto  banco  a spese dell'opera comica (che ha rifornito la "nobile" sorella e rivale di introduzioni, finali d'atto e pezzi d'assieme in numero e proporzione  sempre più considerevoli, e le ha suggerito una articolazione teatrale più concisa e un ritmo scenico sempre più serrato) e pronta a recepire avidamente i nuovi apporti strutturali provenienti da altre fonti: in  primo luogo  dal melodramma francese quale stava uscendo dall'innesto dei talenti di Cherubini e di Spontini sul ceppo  autoctono.  In definitiva,   in questo  periodo  di transizione   l'opera  seria sembra   meno  decrepita   e stilisticamente  satura  dell'opera   buffa, che dopo  la scomparsa degli  ultimi  grandi,  ora gira a vuoto  come  un meccanismo  troppo  consunto,  prigioniero del suo stesso efficientissimo  ma chiuso circuito  stilistico. L'invecchiamento rapido dell'opera   buffa (cui non rimane che morire  per risorgere rossiniana) e il passaggio dell'opera seria al ruolo di "genere guida", costituiscono  anzi il fenomeno caratteristico di questi anni e ne giustificano la funzione storica e gli esiti artistici. Spetta infatti all'opera seria il compito estendere e consolidare  le proprie strutture fino al limite massimo delle loro capacità, in attesa di consegnarsi a Rossini. Né si potrebbero spiegare altrimenti che come primi effetti  del  processo  rigenerativo  che  porterà  il dramma serio alle vette  dei  decenni avvenire, i casi di Mayr e di Nicola  Antonio Manfroce  tanto disparati quanto significativi (i soli ad esserlo davvero) in questi anni di attesa.

La meteora di Nicola Antonio  Manfroce  (nato a Palmi il 20 Febbraio 1791, morto a Napoli il 9 Luglio 1813) scaturisce  appunto dallo scontro traumatico  di un vivacissimo  ingegno sciaguratamente  mancato al mondo nel fiore dell'età, la ventata di novità che percorre in questi  anni il mondo  melodrammatico italiano. Uscito come tanti altri dalle covate di Zingarelli, Furno,Tritto e degli altri didatti e depositari delle tradizioni musicali partenopee, Manfroce  morde il freno e guarda lontano, oltre l'azzurro confine del golfo di Napoli, verso la patria  dei suoi  nuovi,  effimeri  sovrani  portati  sul trono  borbonico  dall'imperialismo napoleonico. Si deve senza dubbio all'iniziativa di re Gioacchino Murat l'avere rinnovato lo stantio repertorio del teatro reale di San Carlo, inserendovi alcuni tra i titoli di maggior successo varati sulle scene parigine tra la fine del Sette e gl'inizi dell'Ottocento.

Tra questi, l’8 settembre 1811 compare La Vestale di Spontini, accoltavi, come era prevedibile, con freddezza. Ma per Manfroce, la tragèdie lyrique del più anziano collega evaso per tempo dal conservatorio  della Pietà dei Turchini  per diventare  compositore francese, è la rivelazione  di un mondo ignorato, di un modello arduo e affascinante  da sostituire  a quelli casalinghi  e alquanto consunti dei suoi maestri.

L'influsso determinante dell'esperienza spontìniana sul giovanissimo maestro calabrese trova  testimonianza   plausibile  nel Florimo  ("Ammiratore   entusiasta  della  Vesta/e  di Spontini,   che rappresentavasi in San Carlo l'ebbe sempre in mente e la prese quasi a modello quando  in appresso  scrisse per lo stesso teatro");  e lo storiografo  della civiltà musicale napoletana cita altresì il Traetta  e il Sacchini tra gli operisti prediletti dell'autore di Ecuba. Nomi che stanno  significativamente   ad indicare  come  il Manfroce,   tra gli esponenti autorevoli  del melodramma del secondo Settecento, prediligesse quelli aperti ad esperienze internazionali  e sensibili alle istanze di rigenerazione drammatica avvertite in quegli  anni. Parlare  di Nicola Antonio Manfroce vuol dire trattare  principalmente dell' Ecuba  (composta su testo di G. Schmidt  e rappresentata  al San Carlo nel1812),  la seconda delle due sole opere che il compositore, morto a ventidue anni, poté portare a compimento. Il melodramma  precedente,  Alzira   su testo di G. Rossi,  Roma 1810) é contenuto  nelle sue parti valide dal successivo  capolavoro. Tra le due, è l'esperienza bruciante spontiniana, non ancora avvertibile nelle strutture di Alzira, ancora debitrici della "linea" tracciata da Mayr, nella concezione formale dei "numeri" musicali e nel trattamento dell'orchestra, e ancora indugiante in mollezze tardo-napoletane, nella tornitura di certi stacchi  melodici.  Frutto,  viceversa,  di uno studio accanito  condotto sulle pagine  della Vesta/e, Ecuba è un coacervo  sperimentalistico   di intenzioni  drammatiche   realizzate  a metà,  in una febbrile ansia di conquista stilistica. Affascinato del grandeur  spettacolare, dell'incedere marziale e gestuale, dall'altra retorica spontiniane,  Manfroce scrive una sinfonia piena di effetti orchestrali "moderni" in una scrittura densa, piena e strepitosa. Seguono, in luogo dei vecchi  "numeri", grandiosi scene per  soli  e coro  imframmezzate  e direttamente collegate  a recitativi strumentali  per lo più a piena orchestra ( ossia con l'impiego dei fiati in aggiunta agli archi, ordinariamente  usati da soli per il recitativo obbligato). Va da sé che il recitativo secco, ancora presente in Alzira , qui è completamente  bandito.

Nei brani solistici, Manfroce  si attiene poi ad una vocalità sfrondata ma non affatto nuda di  volute  belcantistiche; vocalità in cui la inconfondibile impronta napoletana  aspira all'incisiva durezza del declamato francese. Le arie seguono per lo più di regola la nuova forma di due tempi ( Largo-Allegro ), ma non mancano espressioni più concise: bellissima fra tutte, la cavatina  di Polissena, "Oppresse   dal Dolore  ". posta ad apertura d'opera dopo un possente recitativo d'introduzione.  Da Spontini,  Manfroce  trae pure la suggestione per brevi, intensissimi squarci melodici che introduce nei recitativi in alternanza con le formule del declamato, e nei momenti in cui l'espressione drammatica invochi l'indugio di un'effusione lirica: si ascolti, mirabile esempio di tale procedere, l'Andante  "I miei voti appaga”,   intonato da Achille nel corso di un recitativo. Altrove, come nel duetto " Ambi avrem fino  alla morte"   ( Achille-Polissena  ), alla vaghezza melodica della prima  parte si contrappongono  gli slanci quasi weberiani dell'esaltata cabaletta: il tutto nel segno di una nervosa concisione, di una classica sobrietà di accenti, talora di una ricercatezza  di scrittura vocale non meno che strumentale nelle quali è dato intravedere a sprazzi, e come attraverso uno specchio quello che sarebbe stato lo stile personale di Manfroce,  se il destino gli avesse concesso anche soltanto qualche anno di vita in più.

Trascinato  dall'entusiasmo  e dal fascino del nuovo, Manfroce   non esita a scavalcare audacemente  lo stesso  modello  nel finale terzo, che accumula tutti gli effetti  vocali e strumentali  di cui il melodramma  più evoluto di quegli anni potesse disporre e che, in dispregio al lieto  fine osservato da Spontini,  ternina con la morte violenta di Polissena e l'anatema scagliato da Ecuba sui Greci in un forte recitativo concluso da un rapinoso epilogo per sola orchestra, paragonabile soltanto a quello con il quale si concluderà,  otto anni più tardi, il Mosé rossiniano. Gli stilemi tratti da Spontini  e ancora non compiutamente assimilati ( che, come s'é detto, il povero Manfroce  non ne ebbe il tempo.) sono ovunque dominati da una personalità vivacissima e forte pervenuta alla fase cruciale della propria maturazione  stilistica,  e piegati  ad una coerente  ed unitaria concezione  drammatica, vigorosomante  abbozzata.

Melodramma  cupo  e congesto,  teso  in una concitazione  tragica  corrusa  e  sonante, spoglio  di edonistiche  mollezze  persino nelle parti decorative, Ecuba è frutto  di una coscienza creativa che sì erge  isolata  con i tratti  potenziali  nel genio nel  mediocre panorama del tempo. Ed é la sola opera del passato prossimo cui il Rossini  del Mosé e di Ermione  possa avere guardato con serio interesse.

 

 

dal libretto di accompagnamento al CD della Banca Popolare Cooperativa di Palmi

Prodotto da salvatore Idà per la  Said Records  Prod.

 

 

 

 

 

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