top of page

Giudizi Critici

 

L’astro breve di Manfroce

Gianluca Iovine

 

 

 

Nicola Antonio Manfroce, Palmi con la via che gli ha intitolato, ne  sussurra appena

il nome.  Il  Maestro  Manfroce  visse la vita brevissima  e  splendente delle comete,

attraversando  in  musica la volta del cielo.  Un  astro  che sopravvive  in  arie di opere

remote, e in intuìzioni compositive che volevano beffare il tempo. La città: dove nacque

ha voluto ricordarlo, dedicandogli un museo, dove  Manfroce condivide la  sua  avventura

musicale  con  il  grande  e più longevo Francesco Cilea,  in  un percorso di  formazione  che  

portò entrambi a scoprire Napoli Capitale. Tracce di una vita affacciata sulla musica, fin quasi

dalla nascita, l'inverno del 1791, e interrotta per sempre in terra  napoletana nell'estate del 1813.

Per il maestro di cappella cinquefrondese Domenico Manfroce,  e la consorte Carmela Rapillo, il precoce

talento di quel figlio andava aiutato. Di qui il distacco da Palmi, con destinazione il Conservatono napoletano

della Pietà dei Turchini che  ne  affinò la  personalità, ispirata da suggestioni mitteleuropee e fondata su una coerente e testarda idea  di  rinnovamento dell'epica, tratta dallo studio dei canoni francesi dell'Opera Le tre composizioni operistiche che ne nacquero valsero a Manfroce  la stima: dei  musicisti contemperanei, che  scorgendone l’immenso talento, fecero confluire in molte loro opere le intuizioni del Maestro. "La nascita di “Alcide”, dedicata a Napoleone Bonaparte, fu l'esordio compositivo,  l'estate del suoi  diciotto  anni,  proprio  nel segno di quel modo francese che amava controcorrente, in un'epoca  nella  quale  erano  Austria  e Germania  a dettare la   linea da seguire. Così, nella Napoli murattiana, il giovanissimo Manfroce si guadagnò rispetto, individuando la sua cifra compositiva:una nitida rappresentazione della tragedia classica, divenendo ben presto un punto di riferimento per altri musicisti contemporanei, di passaggio in città, e attirando persino l’attenzione degli ambienti romani. La decisione di perfezionarsi nell’Urbe, a scuola dallo Zingarelli, sembrò un passaggio naturale. Manfroce divenne l’esponente della modernità, e la cosa appare tra le righe, o da particolari come l’incontro con il committente Barbaja che lo spinse a realizzare i tre splendidi atti di “Ecuba”, apice e al tempo stesso canto del cigno, composta con le ultime energie che una salute malferma gli aveva lasciato.Fu grande il successo d'autore  al San Carlo di Napolì13 dicembre 1812: si trattava di un'opera nuova, scritta con talento, che scuoteva un panorama  ancorato a schemi piuttosto rigidi. Il tempo però fece sfumare, in fretta  il ricordo.  La musica di Manfroce fu  ripresa, da Rossini,  e anzi, specie nel “Mosè” e nel "Barbiere   di Siviglia" i temi  musicali propri.di Manfroce   ricorrono di continuo; tanto che coraggiosamente lo studioso morgetano Francesco Florimo, dichiarò che l’ invenzione stessa del crescendo rossiniano va restituita al giovane e sfortunato compositore palmese.

Non c'è però uniformità di vedute, e i materiali  da analizzare per un confronto sono troppo esigui. "Ecuba"   è infatti il vertice di una  trilogia iniziata con l'Alzira"  a Roma,  e proseguita  con la rappresentazione   postuma  del "Manfredi", a Milano nel 1816.  Eppure per Florimo, che lo stimava e gli voleva bene; quel giovane condannato a  morire troppo presto, avrebbe potuto saldare gli spiriti musicali di Italia e Germania, grazie all’inteso lavoro di studio e riflessione su Haydn. Lo sguardo attento su Mozart e l’incrocio d orchestra tra Napoli e Vienna, ma abbandonando le peculiarità francesi, avrebbero potuto cambiare il volto della musica. Oggi, forse, avremmo avuto  tragedie  di gusto francese, ma più moderne, e grazie all'uso felice del contrappunto, rivestite di uno stile squisitamente partenopeo.   Composizioni ricche del pathos greco, e rigorose nella costruzione mitteleuropea. Per Francesco Florimo, Manfroce va collocato senza dubbio tra i grandi, insieme a Paisiello e Cimarosa. Da quella esperienza umana si sviluppò il genio di Rossini, che dalla sua ebbe la fortuna di vivere pienamente il suo tempo. Manfroce però va ricordato, perché fu compositore estremamente innovativo. Ventidue anni sono un graffio  leggero nel tempo, ma ricercando tra i documenti dell’epoca nuove tracce che aiutino a comprendere la sua arte, ne conserveremo memoria.

 

 

la Riviera – domenica 18 ottobre 2009

bottom of page