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Giudizi Critici

 

AL TEATRO  RENDANO DI  COSENZA

 

 

TORNA  L'ECUBA DI MANFROCE

UN CAPOLAVORO DIMENTICATO

 

         Lorenzo Tozzi

 

 

 

        Questo scorcio d'anno,  vigilia  al secondo centenario della  sua  nascita, sembra

essere davvero l'anno del calabrese Nicola Antonio Manfroce  (Palmi 1791 - Pozzuoli  

1813), compositore che nonostante la brevissima vita può dirsi con  Simone Mayr  il più

autorevole ed originale operista del periodo di interregno trascorso tra la gloriosa scuola

partenopea dei Paisiello e dei Cimarosa e il fulgido  dominio rossiniano.

 

         Allievo di Tritto a Napoli e di Zingarelli  a Roma, ma soprattutto affascinato dalle opere francesi di 

Spontini  (La Vestale  era  stata  data con successo  al  San Carlo nel 1811),Manfroce aveva fatto presto a

mettersi al passo con i suoi tempi (erano quelli gli anni 'francesi'  di Napoli con la presenza  di Gioacchino Murat).

      

          Il Teatro Rendano come inaugurazione   di stagione rende  gli onori dovuti al suo  illustre  corregionale, portandone sulle scene  l'opera  più matura, quella Ecuba  su un libretto-traduzione di  Giovanni Schmidt, che   l'avveduto impresario Domenico Barbaja aveva commissionato e che aveva visto con suc­ cesso le scene al San CarIo di Napoli nel 1812.

 

             Vi si tratta dell'amore di Achille e Polissena, as­secondato ma ìpocritamen­te e a secondi fini da Pria­mo e dalla  determinata  regina Ecuba, desiderosa  di vendicame in qualsiasi modo la morte del figlio Ettore. E l'epilogo  finale, con Troia  in fiamme e i greci vincitori, vede la accorata Ecuba piangere sui cadaveri dei suoi cari estinti.

     

         L'opera possiede grandi pagine  musicali, come il duetto  dei due innamorati del secondo atto, il concertato  già  rossiniano dello stesso atto, alcune singole arie,  ma  soprattutto   possiede una forte carica drammatica  grazie ad una concezione  musicalmente complessa delle diverse scene. Sicché non si verificano cali di sorta, il che sarebbe già  di per sè eccezionale in un compositore appena ventiduenne.

 

         L'edizione scenica del Teatro Rendano ha reso  in parte giustizia  a questo dimenticato compositore calabrese. Sul  podio il vero scopritore di Manfroce  (già aveva diretto l'Ecuba alla Sala Accademica di Via dei Greci a S. Cecilia dieci anni fa in forma oratoriale), Davide Summaria  ha diretto un'orchestra   volonterosa ma  un po'  a corto  di  esperienza,  Scenografie neoclassiche, con colonnati, gigantesca  statua di Apollo citaredo, tendaggi, erme e poltroncine stile Impero, hanno fatto da sfondo all'azione, così come gli eleganti costumi di  età  napoleonica firmati da Otello Camponeschi e  Fabrizio Onali. Solo la Regia di Antonio Taglioni è parsa piuttosto spenta, comunque meno sanguigna della musica, che  si tinge  di accenti denunciatamene prerornantici.

 

         Buono il cast vocale, con non proprio eccellente adesione al ruolo drammatico:  Adelisa Tabiadon era una Ecuba   regale, ma più adiposa che carismatica; Cecilia Valdenassi una Polissena non certo di primo pelo; in compenso troppo giovane era il Priamo di Orfeo Zanetti e tutt'altro che eroico  l'Achille di Ezio di Cesare.

 

         E, come se non bastasse,  la stessa opera,  ma in altra edizione edirezione,  a giorni apparirà anche sul palcoscenico   dell'Opera Giocosa  di Savona.

 

         È’ tempo di Manfroce, dunque. Per la musica non è mai troppo tardi.

 

 

 

 

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