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Giudizi Critici

            In scena a Cosenza, dopo 178 anni, l'opera  di Nicola Manfroce

          Fu indicato c. ome il nuovo Pergolesi, mori di  tisi a ventidue anni

      Frivola Ecuba, ricordi Rossini

 

   

     L'Ecuba del calabrese Nicola Antonio  Manfroce é andata in scena  a Cosenza dopo  

178 anni dalla sua ultima rappresentazione.  Il lavoro, che collega  l'opera napoletana

all'epopea  rossiniana, rese subito  famoso il giovane  Manfroce,  che però morì di tisi

a ventidue anni, pochi mesi dopo la messa in scena della sua Ecuba. L'opera tra pochi  

giorni  a Savona con una nuova produzione.

 

 

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Marco Spada

     

 

        COSENZA.     Fino  a  non molto  tempo la  conoscere  lo stato di salute dell'opera  lirica in  Italia  prima  del  Barbiere di Siuiglia di  Rossini era impresa ardua.   Per  avere  notizie.   in mancanza  di centone  in sede esecutiva,  non  rimaneva   che leggersi qualche lacunoso manuale dal  quale  trarre  al  più nomi  e titoli  in ordine  sparso, Che   facevano   Cimarosa   nel 1796 e Paisiello nel 1808?  E cosa andava  a vedere la gente a teatro  Ira la caduta  e il ritorno degli Asburgo e dei Borbone? Il buco nero comincia oggi a lanciare timidi bagliori. Un po' grazie ai bicentenari, un po' per la necessità dei teatri di pescare nell'inedito, la trama del dopo-Mozart/prirna-di-Rossini si va ricomponendo e titoli come Gli Orazi e Curiazi di Cimarosa, I Pittagorici di Paisiello o La rosa rossa e la rosa bianca di Mayr (recentemente ribattezzate): cominciano a dirci qualcosa di più.

         Cosi apprendiamo che, se troni e teste andavano giù con rapidità, le rivoluzioni musicali da noi erano assai più lente. Bastava un tratto di penna a sostituire “Bonaparte” con “Ferdinando” e opere cantate venivano riscodellate tali e quali  per la gioia  di tutti. Con qualche squillo di tromba. Qualche trombone e grancassa a fare la voce grossa in orchestra e un canto sfrondato e “virile” si metteva la corazza sopra e la crinolina e si compiva il miracolo  di trasformare. non senza il retaggio di lacrime settecentesche, il classico in neoclassico.

        Ecuba  del  calabrese Nicola Antonio Manfroce, che il teatro Alfonso Rendano riporta agli onori del palcoscenico dopo178 anni, è un anello fondamentale di questa catena che collega, non solo teoricamente, l'opera napoletana al crescendo rossiniano. La famosa “griffe” del pesarese si  ritrova infatti  già abbozzata  nel finale del  primo atto di questo  interessante  lavoro del 1812. Basterà riversarci un po' di cinismo per rendere tutto più ossessivo e moderno. E non è tutto. I “presentimenti” del Rossini serio ci sono,  anche nel trattamento delle voci, che escludono i  bassi e puntano  su due tenori  e  due  soprani,   trattenuti appena al di qua del brivido vocalizzante di quella che Stendhal chiamava la “follia organizzata e completa”. E poi,  come non ricordarsi di Desdemona nell' Otello, quando l'arpa comincia a preludiare cristallina ed Ecuba attacca “Figlio mio vendetta avrai»?

         Con quest'opera Manfroce, appena ventiduenne, ottenne il più clamoroso successo della sua carriera. Ma anche l'ultimo,  poiché mori di lisi pochi mesi dopo la prima. E da allora il mito di un nuovo Pergolesi è resistito fino ai nostri giorni, lasciando insolute le risposte al "cosa avrebbe fatto dopo”. Quesito ancora più intrigante ora, se si considera che, nel generale disinteresse per le cose musicali di Francia, Manfroce fu tra i primi ad aprirsi agli influssi della tragédie-liryque spontiniana e a portare nel secco orto dell'opera seria italiana recitativi strumentali densissimi (con l'uso nuovissimo dei  fiati), scene ampliate da cori in funzione drammatica e da azioni coreografiche minutamente descritte. Come nel finale (siamo negli anni della guerra di Troia), splendido, dove alla maledizione di Ecuba contro i greci segue l'incendio descritto dalla sola musica, mentre Cassandra ed Enea, usciti dal poema omerico, sfilano silenziosi  tra le rovine.

       Il recupero di questa gemma al merito di Davide Summaria che da anni studia il conterraneo Manfroce e di Ecuba ha approntato  una revisione della parti tura che ha anche diretto. Ma, forse per ragioni di economia, la rappresentazione  è sta­ ta privata di tutte le danze e delle  azioni rnimiche connesse all'azione, cosa che ha nuociuto  ad  una valutazione   più attenta.  Con  un'orchestra più solida e intonata dell’Istituzione sinfonica “L.Vinci” si sarebbero potuti ottenere risultati migliori, bilanciati peraltro dalla preparazione dell'Arpa chorus di Emanuela  Di Pietro. Nella compagnia di canto Cecila Valdenassi non ha smentito il suo professionismo, mentre più appannate sono risultate le prove di Adelisa Tabiadon, Ezio Di Cesare e Orfeo Zanetti. La messa in scena ha occhieggiato ad un neoclassico francesizzante, con qualche bel costume di Otello   Camponeschi sprecato da una regia inesistente. Una curiosità: Ecuba  tornerà  fra pochi  giorni  in scena a Savona in una nuova produzione. Magnifico: ma in clima di  tagli, non sarebbe meglio evitare gli sprechi dei doppi allestimenti?

 

           

        Pagina 20 L’unità martedì 23 ottobre 1990

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