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(a cura di Carmelo Neri /carmeloneri43@yahoo.it)

 

Il «Bellini calabrese»

Vita e opere di Nicola Antonio Manfroce

 

Se la sua morte è stata una sventura per

la nostra scuola, nol fu però pel di lui 

nome, che deve necessariamente essere 

e confido di far rivelare com le due sole 

opere di un giovinetto abbiano servito di 

primo scalino a quella che chiamiamo 

musica del secolo decimonono.

    

                                                                                                                                                                                                         (Francesco Florimo)

       Sfogliando il vecchio Vocabolario del dialetto calabrese di Luigi Accattatis, pubblicato a Castrovillari nel 1895, ci si imbatte nella voce “Parmi” (=Palmi): si legge che questo piccolo centro in provincia di Reggio Calabria, adagiato sui pendii del monte Sant’Elia, sullo scorcio del secolo XIX contava quasi undici mila abitanti, che era provvisto di un «oleificio sperimentale», di una Banca Agricola, di «una società operaia», di due «circoli d’unione», di un elegante giardino pubblico, di belle strade («specie il corso principale»), e poteva andar fiera per alcuni uomini illustri, tra i quali Nicola Antonio Manfroce, «che fu detto il Bellini Calabrese». Da questa curiosa definizione si è preso spunto per dar titolo al presente lavoro.

         A dire il vero l’accostamento di Manfroce a Bellini, e non piuttosto a Rossini, con cui sembra avere maggiore affinità stilistica, può apparire strano e azzardato, ma non lo è affatto, soprattutto se si considera che questi due sventurati artisti furono contrassegnati, quasi in tutto, da un comune destino: entrambi furono figli di un organista e appresero in seno alla famiglia i primi rudimenti della loro arte; entrambi mostrarono precoce inclinazione per la musica; entrambi furono allievi del Collegio di San Sebastiano a Napoli, ed ebbero gli stessi insegnanti; entrambi furono incoraggiati nei primi passi della carriera da Domenico Barbaja, famoso impresario del Teatro San Carlo della stessa città; entrambi fin dall’esordio ebbero in sorte eccezionali compagnie di canto; entrambi orientarono per innata sensibilità la loro produzione verso il melodramma serio o tragico; entrambi amarono esaltare nelle loro composizioni la melodia più che l’armonia e l’orchestrazione; entrambi si fecero ammirare per l’avvenenza della persona; entrambi, dopo che le donne ebbero tanta parte nella loro esistenza, morirono abbastanza giovani; e infine entrambi, cessando di vivere, non ebbero accanto al letto di morte il conforto dei propri cari.

         Inoltre a Manfroce furono e sono tuttora rivolte lodi che si potrebbero indirizzare uguali all’autore di Norma, perché il giovane palmese, soprattutto nell’Ecuba, sua seconda «armonica melodiosa composizione»,  ha dimostrato una singolare  maestria nel sapere, come il Catanese, «secondare felicemente la parola», cioè prestare la dovuta attenzione al testo poetico, facendosi anch’egli apprezzare per la purezza e la semplicità delle linea melodica, che si direbbe appunto “belliniana”. Ciò si osserva soprattutto in alcune sue tenere ariette, come “Povero cor perchè” dell’Alzira e “Miei voti appaga” dell’Ecuba. Del resto doti di «classica concisione, di quella venustà, di quell’incisiva semplicità, che non è mai semplicismo», gli sono state riconosciute da Giovanni Carli Ballola, il più prestigioso dei critici musicali italiani, a proposito del duetto “Ambi avrem fino alla morte” della stessa Ecuba.

         Il tempo rende ora giustizia al musicista di Palmi, e ha tolto per sempre il suo nome dal limbo degli operisti “minori” e affatto trascurabili. Eppure fino a pochi decenni fa sembrava che sul suo conto non ci fosse più nulla da scoprire, e che le vicende più significative della sua breve vita e della sua opera fossero tutte compendiate nel commovente profilo biografico che di lui ha tracciato Francesco Florimo nei suoi famosi volumi sulla scuola musicale napoletana. Era quasi inutile cercare alla voce “Manfroce” anche nelle comuni enciclopedie, e, consultando qualche testo di storia della musica, s’incontravano riprodotte, come in fotocopia, notizie già presenti in altre pubblicazioni.

         Eppure il successo della sua Alzira, rappresentata in numerosi teatri italiani, talora in coppia col Tancredi di Rossini, ed eseguita dai più celebrati cantanti dei primi anni dell’Ottocento, aveva fatto presagire una folgorante carriera, e il maestro ebbe un momento di grande  notorietà. Di lui ci si occupava anche all’estero, e ne è una prova che sull’Allgemeine Musikalische Zeitung (ed. Breitkopf und Härtel, Leipzig – n. 50, dicembre 1821), a pochi anni dalla morte, lo si ricordava ancora come “un compositore di grandissime speranze” («Manfroce, ein äusserst hoffnungsvoller Tonsetzer»), morto in età giovanile, dopo qualche prova molto felice («der jedoch nach einigen sehr glücklichen Proben»); si aggiungeva che la sua Ecuba, scritta per Napoli, e l’Alzira scritta per Roma, «gli hanno procurato onore da parte dei conoscitori e applausi da parte del grande pubblico» («haben ihm Ehre von den Kennern und Beyfall im grossen Publikum verschafft»). 

          L’Ecuba, considerata il suo capolavoro, confermò le attese che su di lui erano state concepite, e subito troncate dalla morte prematura. In questi ultimi tempi si è avuto, inaspettato, un risveglio d’interesse sulla sua attività artistica, e, tra gli altri, a occuparsi di lui sono stati importanti studiosi come Claudio Casini, Paolo Isotta, Renato Bossa, Giancarlo Landini, e il già citato Giovanni Carli Ballola, che spesso lo ha menzionato nei suoi scritti.

         È noto che l’Ecuba sul finire dello scorso secolo è stata ripresa in alcuni teatri, e che è stata commercializzata su CD. Si è trattato di iniziative lodevoli, ma le più recenti esecuzioni di questo melodramma non possono giudicarsi del tutto conformi alla produzione originale, e l’effetto che ne è scaturito non è certo quello che il maestro aveva immaginato; ciò è dipeso soprattutto dall’avere assegnato determinati ruoli a cantanti bravi ma con caratteristiche vocali diverse da quelle possedute dei celebri interpreti della prima edizione, avvenuta a Napoli nel 1812. L’Ecuba, che è di quelle opere che si gustano appieno solo dopo ripetuti ascolti, ha il pregio di non stancare, di non annoiare come tante altre, e si rende più gradevole della stessa Vestale di Gaspare Spontini, che ne fu il modello. Di recente è stata inserita nell’Enciclopedia Universale dei Capolavori – Musica  (ed. UTET, Torino, 2005), in due volumi, e ciò dimostra che la fama del suo prodigioso autore è ormai consolidata, e che solo musicologi superficiali o poco preparati possono ignorare la sua importanza nella storia del melodramma italiano.

 

 

 

PALMI (1791-1804)

 

 

        Sul finire del Settecento il piccolo comune di Palmi Calabro, che allora si chiamava “Palme”, denominazione attestante, a quanto pare, un’abbondanza di palmizi nel territorio, contava press’a poco 4800 anime. Più volte distrutta dai terremoti, Palmi è sempre risorta dalle macerie, di certo per l’attaccamento dei suoi abitanti ai mirabili panorami che si osservano dalle sue alture e per la straordinaria fertilità della campagna circostante, ricca di uliveti, vigneti, agrumeti ecc. Altre fonti di guadagno per l’economia del luogo provengono dalle attività commerciali, industriali e artigianali, che anche in passato determinarono condizioni di vita migliori di quelle dei paesetti vicini, e soprattutto dell’entroterra, rimasti in gran parte isolati e tagliati fuori dalle principali vie di comunicazione. In tale situazione si trovava anche Cinquefrondi, che ebbe origine «dalla riunione di cinque villaggi distrutti da un terremoto nel sec. XVII», da dove Domenico Manfroce e Carmela Rapillo, genitori di Nicola Antonio (d’ora innanzi per brevità solo “Nicola”), decisero un giorno di allontanarsi e di fissare proprio a Palmi la nuova residenza.

        Questa parte della Calabria nel 1783 fu funestata da un terremoto di particolare intensità, avvenuto quando la famiglia Manfroce abitava ancora a Cinquefrondi, che andò molto in rovina, mentre Palmi subì soltanto danni parziali, e, fra l’altro, conservò intatta la “civica Fontana”.(1)  Dopo quel disastroso evento, don Domenico, un valente organista, decise di traslocare con la sua famiglia, mosso dal desiderio di procacciare un migliore avvenire ai suoi cari. Palmi lo attirava di certo, e non solo per i buoni servizi che offriva, ma perché provvista di un’eccellente banda musicale e di chiese che necessitavano spesso dell’opera di maestri di cappella; c’era pertanto la possibilità di trovare del lavoro e di poter  procacciare l’occorrente per mantenere un’onesta famigliola.

        In merito alla professione di don Domenico, nella ricorrenza del bicentenario della nascita di Nicola, è apparso su un periodico reggino un prezioso articolo,(2) a firma di Francesco Lovecchio, da cui si apprendono parecchie notizie interessanti: Lovecchio sostiene che i Manfroce, abbandonata Cinquefrondi, si stabilirono a Palmi «qualche anno dopo il terribile terremoto del 5 febbraio 1783», e il trasferimento sarebbe avvenuto nell’intervallo di tempo tra il 1784 e il 1786, perché in un atto notarile del 3 aprile 1784, compilato dal notaio Filippo Catalano, e custodito presso l’Archivio di Stato di Palmi, è allegata una procura «con la quale Domenico e Carmela Rapillo autorizzano Nicola Manfroce, padre e suocero a... vendere, ed alienare il sopradetto fondo di Pietra della Marvizza a detto Magnifico Antonino Petracca»; al tempo dell’anzidetta  procura, come precisa Lovecchio nello stesso articolo, la famiglia Manfroce abitava ancora a Cinquefrondi, mentre un altro foglio dello stesso notaio lascia intendere che nell’anno 1786 la residenza era già fissata a Palmi.

        Controversa è anche l’ubicazione dell’edificio in cui nacque Nicola: secondo Domenico Ferraro,(3) biografo del maestro, era «una modesta casetta, che suo padre aveva preso in fitto da una tal De Francia, vedova Pillaro, [e] sorgeva, nello spazio oggi occupato dal portone del palazzo Bovi, in uno dei quartieri più antichi di Palmi, accanto alla Villa Comunale, in Via delle Muraglie»; Lovecchio sostiene invece che ora è quasi impossibile individuare con esattezza la casa natale del maestro, «in quanto i terremoti e, soprattutto, la ricostruzione della città operata dall’ing. militare Baldi su progetto di Giovambattista De Cousiron ha cambiato quasi totalmente il primitivo aspetto urbano». Lo stesso Lovecchio ha trascritto un atto del notaio Michelangelo Soriani, compilato nel 1797, quando Nicola aveva sei anni, e da questo documento risulta che in quell’anno «il Magnifico Domenico Manfroci di Cinquefrondi, abitante de domo, et familia in questa città di Palme», riceveva in affitto dal Reverendo Don Antonio Sorbara un’abitazione posseduta da quest’ultimo «nel quartiere San Nicolò».

        Un altro interessante atto notarile è stato commentato da Rocco Liberti su una rivista pubblicata a Palmi,(4) e da esso si apprende qualcosa di più concreto sulla professione di don Domenico. Si tratta di una scheda del notaio Francesco Antonio Burzì, che porta la data del 3 ottobre 1802: dalla stessa si ha certezza che il padre di Nicola per tre anni consecutivi si era recato a Rizziconi «d’unita all’intiera Musica»  (=banda,  di cui era,  come appare  evidente, il direttore)  per s olennizzare l a festa  del  S.mo Rosario. Nel documento in questione quel bravo  organista  si  mostra  contrariato  perché  «nei vari viaggi effettuati a Rizziconi  ha notato  che l’organo sistemato nella matrice non rispondeva ai requisiti voluti, ma si qualificava dell’intutto disordinato, e scomposto, in guisa tale che l’organo sudetto dovesse, per la sua grandezza dare un suono sonoro, e li bassi stessi dare quel tuono che [per] la loro grandezza dar doveano, e non già insensibili, in modo tale che sembravano che non vi fossero». Insomma quello strumento stava per andare in rovina, e il bravo  organista, cui  tutti  i giorni «per la sua professione» si offriva il destro di visionare 

Palmi in una stampa settecentesca (1779 – particolare). Sullo sfondo, a sinistra, si nota la Chiesa dei P.P. Riformati (ora “dell’Annunziata”), dove il dodicenne Manfroce fece ascoltare la Messa rivelatrice del suo talento. La sua abitazione era situata nelle adiacenze della detta Chiesa. A destra, a poca distanza dalla Chiesa Madre (ora diversamente orientata), s’intravede la piazza principale e la “civica Fontana”

«un’infinità di organi», se ne rammaricava, e forse per giustificarsi e opporre le sue buone ragioni alla probabile contestazione di non averlo suonato durante l’anzidetta festività.

        A Palmi tentava invece di guadagnare qualcosa con lezioni private, e lo attesta un altro atto del notaio Soriani, trascritto anch’esso da Lovecchio nel citato articolo, in cui si legge quanto segue: «Don Domenico Manfroce di questa città di Palme, cognito, manualmente, realmente, e di contante si riceve dal Signor D. Pietro Baldari, qui presente e sborsante, la somma di ducati quattordeci, consistentino in tanta moneta di argento uguale in questo Regno di Napoli, avanti di noi numerati. Per li quali ducati quattordeci, come sopra ricevuti per esso suddetto D. Domenico Manfroci, col suo giuramento spontaneo si obbliga se stesso  realmente e personalmente, Eredi, e beni tutti del medesimo, col copto, e precario, et pacto, per decomputarsi, ad esso Sig. Baldari e i suoi eredi alla ragione di carlini quindeci il mese, con darci lezzione (sic) di cembalo, e solfeggio ad esso Sig. D. Pietro senza punto mancare, e mancando da tal sua obbligazione che proporzionalmente si dovessero ratizzare le mancanze.»

È pacifico che nell’abitazione di don Domenico esisteva una spinetta o un clavicembalo, e che di questo strumento approfittasse anche il piccolo Nicola, uno dei tanti bambini prodigio di cui la storia della musica offre esempio. Della sua precoce passione per l’arte dei suoni ha scritto  negli  anni  intorno  al  1860  uno  storiografo  palmese,  Domenico Guardata,  e  il  suo racconto,  pubblicato sia da Ferraro (5) sia daLovecchio,(6) è il seguente: «Nacque Nicola Manfroce verso gli ultimi anni dello scorso secolo, e sin dalla più tenera età manifestò un amore grandissimo per la musica; talchè spesso mangiando soleva anche suonare il pianoforte. Giunto all’età di anni 11, e condotto a Catanzaro come membro di una compagnia di musica palmese, invitata in quella città in occasione di una festa, i Catanzaresi in vederlo mossero le lagnanze contro il Sign. Jonata, direttore della musica, perchè in un’orchestra così rispettabile si fosse introdotto un ragazzo. Ma allorquando essi sentirono il Manfroce dar moto al suo strumento, oh! Allora non solo più inetto lo reputarono; non solo mille voci di acclamazione per l’aere echeggiarono; ma per impossibile ritennero esser egli uomo, bensì uno spirito. Or dirigendo un dì un’orchestra di musici nella Chiesa de’ P.P. Riformati in Palmi, ed udito da un tal D. Gaetano Cresci negoziante, questi ammiratosene lo condusse in Napoli per metterlo a sue spese in un istituto musico di quella città; ma fallito immediatamente nel negozio il Sig. Cresci, era il Manfroce sul procinto di ritornare in Palme, allorquando per cura di altro benefico uomo, del Signor Antonio Bianchini, entrò in uno de’ Conservatori.»

 

Francesco Florimo (1800-1888) (7) afferma le stesse cose, e si può ben credere che avesse conoscenza di questo racconto; tuttavia il benefattore napoletano è da lui denominato Signor Bianchi. Né Florimo, né Guardata precisano quale fosse lo strumento suonato dal piccolo Nicola al seguito della banda di Palmi, non più diretta da suo padre, forse ammalato, ma da un altro valente maestro, Antonio Jonata, che pare lo abbia sostituito anche nell’incarico di direttore della “Musicale Cappella” della Chiesa Matrice. La scomparsa di Don Domenico, se avvenne nel 1803, come è probabile, lasciò moglie e figli nel lastrico, e può essere in qualche modo collegata al destino di Nicola, il cui allontanamento da casa, sottrasse alla famiglia un’altra bocca da sfamare. Comunque sia, in questa narrazione ottocentesca è già ufficializzata la nascita del mito: si incominciò così a favoleggiare su questo ragazzo, mostro di bravura, che, passato in fretta tra gli uomini, ha lasciato un’insopprimibile impronta della sua genialità.        

      In altro scritto (8) del medesimo periodo, anch’esso poco conosciuto e non privo di errori, di Manfroce si esaltano i giusti meriti: «Entrato nella puerizia nel Real Collegio di Napoli, il suo genio vasto campo trovò  agli studi dell’armonia, nei quali, senza posa, diligentemente attese..., finchè, giunto al ventunesimo [erroneo per diciannovesimo - ndr] anno di sua età, volle esordire con lo spartito: Alzira, il quale, per tessitura e acconciatezza di strumentale, non che per la delicatezza di canto, venne unanimamente rimeritato di frenetici applausi – scrisse eziandio musiche per chiesa, le quali per sfoggio di dottrina, per gravità di stile, e per bellezza di motivi, meritarono rinomanza imperitura – E fra queste primeggia una messa a grande orchestra, che può ben a ragione ritenersi a modello di quanti si dedicano a dettar musiche in argomenti sacri – Nello stesso spartito, di cui testè è cenno, si ravvisano vivacità di immagini, felicità di cantilene, potenza di accordi, a dir breve, i preliminari di un genio che stava per sorgere. Nelle musiche poi, di genere chiesastico, si scorge la severità di chi seppe bellamente attingere ai capolavori di quei sommi maestri, che grandemente contribuirono a formare la scuola musicale napoletana. Questo fiore gentile non ebbe appena mandata la fragranza del suo odore, che venne reciso dal suo stelo.»        

       Altrove si legge che nella natìa Palmi l’adolescente Nicola si esercitava a suonare l’organo della Chiesa parrocchiale, intendendo quello della Chiesa Madre o quello della Chiesa dei P.P. Riformati, in cui avvenne l’episodio, riportato in vari cenni biografici (anche in lingua straniera), della Messa che entusiasmò quel tal Cresci, e che si dice da lui composta senza avere studiato armonia e contrappunto.         Gli anni trascorsi a Palmi non possono essere ricordati con altri episodi notevoli che lo riguardano: se il suo arrivo a Napoli si fissa nel 1804, e l’episodio della Messa risale a quando aveva dodici anni, cioè al 1803, tra i due eventi ci fu qualche intervallo di tempo. Inoltre è facile immaginare che il viaggio, durante il quale Nicola ebbe compagno il suo primo benefattore, sia avvenuto con partenza da uno dei due piccoli scali marittimi di Palmi, denominati “Marinella” (collegata alla città da una ripida strada che permetteva di superare un dislivello di circa 250 metri) e “Pietrenere”. La cittadina calabra allora era abbastanza attiva nel commercio via mare, (9) e si avvaleva di collegamenti diretti con Messina, Napoli, Genova, Livorno, e Marsiglia.          

        Interesse per la musica mostrò anche Natale Manfroce, (10) fratello del maestro, di cui sono note due composizioni custodite presso il Conservatorio «G. Verdi» di Milano, unite a un consistente gruppo di manoscritti di Nicola. Si tratta di “variazioni” su temi della Semiramide di Rossini, con dedica a un tal Luigi Versace, che può identificarsi in un analogo personaggio, conosciuto da Florimo, e menzionato nell’epistolario belliniano. (11) Natale, probabile primogenito (Ferraro ha desunto da vecchi registri parrocchiali che fu cresimato il 6 aprile 1802), pare che in seguito abbia avuto incarico di maestro di cappella nella vicina città di Bagnara, città d’origine della madre Carmela Rapillo. Nel catalogo nazionale dei manoscritti musicali gli si attribuiscono altri due brani: “Se al mio dover costante” (S,A, pf.) e il duetto “Va disleal combatti” (2S, pf.). Delle sorelle Vincenza e Maria Antonia, più piccole di età, si conosce ben poco: quest’ultima sposò un tale Emanuele Savoia, padre di Paolo Savoia, compositore, che fu allievo di Donizetti e di Ruggi nel Conservatorio napoletano.        

         Una cronaca riguardante una rappresentazione dell’Alzira al San Carlo di Napoli sul finire del 1818, apparsa sul «Giornale del Regno delle due Sicilie» il 7 gennaio 1819, parlando della morte precoce del maestro, non ha fatto alcun cenno del padre e neppure del fratello Natale: «Mancato sul cominciare della sua carriera, e quando tutto rendealo sicuro di potere essere un giorno il sostegno di sua famiglia, lasciò egli nella desolazione la madre e due sorelle di tenera età, le quali sarebbero rimaste abbandonate all’indigenza, se non occorrevano in loro soccorso la provvidenza del Governo, e le sollecite cure di una di quelle anime generose che appaion rare sulla terra per rendere cara la virtù, e per fare arrossire quanti con colpevole egoismo mostransi indegni di favori della sorte ». Chi fu mai quest’anima buona che aiutò la famiglia Manfroce? Non è facile identificarla, ma non si può escludere che sia stata una certa “marchesa N.N.”, la stessa che fu ritenuta da Maroncelli responsabile di grave danno alla salute di Nicola.          

        La città di Palmi si è sempre prodigata per onorare la memoria dell’illustre concittadino, e nel 1859 volle intitolargli la strada detta “delle Muraglie” (12) e la piazza adiacente; in tempo successivo, in occasione del primo centenario della sua nascita, per iniziativa del locale “Circolo Mandolinistico Francesco Cilea” e per mezzo di una sottoscrizione popolare, gli fu innalzato un busto nella Villa Comunale, opera dello scultore Vincenzo Jerace (1862-1937), che riproduce il bellissimo ritratto a olio del maestro, dipinto nel 1875 dal pittore romano Vincenzo Salvato Paliotti (?-1894).(13) Tale dipinto è stato riportato a colori e a pagina intera in un recente volume di ritratti di musicisti, ed è stato così descritto: «È proprio un ragazzo, il compositore che con gesto rapido si stringe contro il petto il foglio di musica arrotolato, come a impedire che glielo portino via e guarda con gli occhi vivi, glauchi e ben aperti qualcosa che viene dall’alto a coprirgli d’ombra il volto. È la morte che viene e coglie prematura quest’ultimo «fanciullo divino» della scuola napoletana, le cui opere avevano avuto clamoroso successo, facendo sperare in un musicista degno dei famosi predecessori. Il pittore tardo romantico – bravissimo nel rendere pelliccia e capelli – che ce ne dà un’immagine nobilmente patetica, e non sappiamo quanto somigliante all’originale, senza dubbio vuole suggerirci tristi emozioni e amari pensieri sulla caducità umana.» (14)          

       L’immagine del maestro fu effigiata in altre due sculture: nel 1845 fu riprodotta in un medaglione presso il Conservatorio napoletano, e nel 1955 il suo volto fu scolpito da Michele Guerrisi (1893-1963); tale scultura è custodita nella città natale. Nel 1893 fu edificato a Palmi un “magnifico teatro”, a lui intitolato, e inaugurato con la Tilda di Francesco Cilea, diretta dall’autore. All’opera fu fatta precedere la sinfonia dell’Alzira, diretta dallo stesso Cilea. Il teatro fu distrutto dal terremoto del 1908.

Disegno del Teatro Manfroce di Palmi, distrutto dal terremoto nel 1908. (Dalla Rivista «Banca Popolare Cooperativa di Palmi» – Palmi, maggio/luglio 1993.)

Resta infine da rammentare un bel componimento del  palmese avvocato Nicola Oliva (1867-1933) in una sua cantica, intitolata Il monte Aulinas,(15) e pubblicata nel 1890:

 

 

 Qui fu Manfroce: il cigno che primero

Dell’universo all’armonia serena

 Volgendo l’alma, il core ed il pensiero

  Ne tragge l’inno, e con mirabil vena,

  All’arte, che sublima e molce e bea,

 Lo coordina, e il reca sulla scena:

 Donde il duolo d’Ecuba, che vedea

 Perir la prole sventurata, e ‘l pianto

  D’Alzira ogni cor fremer facea.

  Gli sorrise la gloria, ed ahi, soltanto

 Al suo avello sorrise! Il giovinetto

 Dell’arte al sacro fuoco restò affranto.

La patria il pianse con verace affetto

E voi spargete ognor fiori e ghirlande

  Sull’avello di lui, troppo negletto.

II

NAPOLI (1804-1809)

 

Giunto nella città partenopea, fortunose circostanze permisero al tredicenne Nicola di poter frequentare l’antico Conservatorio della Pietà di Turchini, da cui erano usciti insigni compositori come Francesco Feo, Leonardo Leo, Gaspare Spontini e tanti altri; vi arrivò in un momento in cui quella vecchia istituzione, dopo secoli di gloriosa attività, era pervenuta allo stadio più grave della sua decadenza: il governo dell’istituto era affidato ai religiosi, che si erano dimostrati incapaci di assicurarne il decoroso funzionamento, cosicché un po’ tutti i servizi languivano, e persino il vitto somministrato agli allievi, che vi erano ammessi dagli otto fino ai venti anni, lasciava alquanto a desiderare.

         In tale contesto è facile immaginare quanto abbia sofferto l’adolescente Nicola, lontano dei propri familiari e incerto del proprio futuro. L’ultracentenario regolamento dell’istituto prescriveva che i discepoli indossassero  «un abito modesto e decente, di color torchino che vada al paonazzo, lungo a modo di sottana ecclesiastica, con collare bianco, bottoni, scarpe nere, calzette torchine o bianche».(1) Nel 1806 gli allievi, «lasciata l’antica pretesca furono vestiti di una uniforme di panno turchino, con bottoni di metallo bianco,  e col  distintivo  di una lira,  ricamata in argento sul collaretto». (2)

         Ma in quell’anno ci fu una novità importante: in data 4 ottobre «il ministro esponeva la necessità di riformare l’istruzione musicale e di affidarne la direzione ad un giurì di tre sommità musicali allora residenti a Napoli: Giovanni Paisiello, Fedele Fenaroli, Giacomo Tritto, che godevano della più incontrastabile rinomanza».(3) Altra novità fu un decreto di Giuseppe Napoleone, re di Napoli, col quale in data 26 novembre 1806 il Conservatorio di S. Maria di Loreto, dovendosi trasformare in ospedale, fu abbinato a quello della Pietà dei Turchini, e ciò creò disagio perché il ristretto e inadatto fabbricato si dimostrava insufficiente per ospitare un elevato numero di allievi, e pertanto in data 16 febbraio 1808 fu deciso di traslocare il Conservatorio «...nel magnifico e grandioso monastero delle dame monache di San Sebastiano in Piazza Mercatello», divenuta poi piazza Dante.

         Con ulteriore decreto regio al luogo, accantonata la denominazione di Conservatorio, a decorrere dal 30 giugno 1807, fu «sostituita quella di Real Collegio di Musica». Nel 1808 si pensò anche di istituire il primo nucleo di quella che sarebbe diventata una delle biblioteche musicali più famose del mondo, e la responsabilità di essa fu affidata a Giuseppe Sigismondi (1739-1826), compositore e insegnante, che iniziò la preziosa raccolta di opere teatrali e didattiche, salvaguardando dalla dispersione autografi di valore inestimabile, inclusi alcuni di Manfroce.

L’antichissimo edificio, nuova sede della scuola, era «addossato alle spalle della Chiesa di Gesù Nuovo, col cui convento delimitava». Il chiostro delle monache fu adattato alle esigenze della scuola musicale, e fu diviso in tre piani, ognuno dei quali conteneva una sezione di alunni: i piccoli, i mezzani e i grandi. Al primo piano era situata la cappella. Il rettore ecclesiastico, don Gennaro Lambiase, si occupava della parte educativa e disciplinare. La disciplina era fin troppo rigida e ne fa fede una testimonianza di Piero Maroncelli (1795-1846),(5) che arrivò a Napoli sul finire del 1809 e vi rimase fino all’ottobre del 1814; nel Collegio, dove ebbe come insegnanti Paisiello e Zingarelli, divenne amico del giovane Palmese, a cui dedicò un affettuoso cenno biografico, pubblicato nel 1821, quando lavorava a Milano, forse come copista, presso lo stabilimento della Casa Ricordi. Il famoso patriota affermò che Nicola «in piccola età fu de’ figlioli della Pietà de’ Turchini in Napoli per apprendere il comporre in musica, onde non per buon ordine e filosofia di studi, ma sì veramente per quel sommo spirito ch’egli era uscì egregio. Conciosiacosachè di quei tempi, in quel loco, non che logica e buone lettere, non insegnavasi a’ sonatori, ai cantanti e pure a compositori di scrivere il loro nome.  E sebbene fossero alcuni preti provinciali veramente tristi e bergoli col doppio ufficio, qual di prefetto e maestro de l’abbici, qual di vicerettore e maestro di latino, tra per la costoro ignoranza e per lo barbaro uso del bastone, ognuno di più che poteva fuggiva la scuola, o se v’andava non nulla apprendeva. Nè meglio è a dire de’ maestri di musica sotto certi rispetti. I quali per avventura potevano essere de’ più valenti del paese, ma venendo anch’essi dalla scuola della Pietà o di quella di Loreto o di Onofrio (tutte tre a un modo ordinate), nè avendo avuto poscia campo o voglia di conoscere la ragion vera delle cose, mostravano solamente a’ loro discepoli come condurre un canto semplice e bello, con gli esemplari classici de’ maestri antichi italiani, e lasciavanli scriver solfeggi: e con le fughe a due, a tre, a quattro insegnavano materialmente l’armonia  e il giuoco delle parti. Ciò erano tutti gli studi in che allora ponevano l’ingegno i compositori, e la musica trascuravasi affatto nella parte di sublime linguaggio appassionato, sì in quanto a sè, come tuttavia in quanto al suo accordo con la poesia. [...] Solamente ho fatto questo lungo principio per aprire la via a intendere, come essendo stato educato Nicolò Manfroce al modo barbaro detto sopra, tutto quello che fece fu opera sua: e se per la cortissima vita che visse non aggiunse ad essere quel Regolo che ci manca, è stata veramente miseria grandissima della musica, avvegnachè natura avesse fatto Manfroce capace d’ogni grandissima cosa.».

Veduta dell’arsenale e del molo di Napoli in un’incisione in rame del 1804, quando vi giunse Manfroce.

Per conoscere qualcosa di più sull’attività di Nicola nei primi anni di studio a Napoli viene in soccorso Florimo, che di quanto ha scritto non fu testimone diretto, e ha riferito particolari a lui comunicati da suoi condiscepoli o da conoscenti: «all’età di quindici anni cominciò a comporre, e mostrò nelle sue produzioni un genio, che sembrava destinato a dividere col Rossini la gloria della rivoluzione musicale del XIX secolo. Sarebbe stato più fortunato nel congiungere le soavi melodie della Scuola italiana alle ricchezze della Scuola Alemanna, di quello che furono il Mayr, il Paër, il Generali». Alunno ancora quando il Conservatorio della Pietà de’ Turchini passò nell’edificio di S. Sebastiano, in questo, tra il 1808 e il 1809, «compose due Messe ed un Dixit [su testo del salmo 109 - ndr] per quattro voci a grande orchestra ed una Sinfonia, che piacquero universalmente».(6) Domenico Ferraro dai vecchi registri del San Sebastiano ha ricavato la notizia che Nicola cessò di essere “convittore” il 4 febbraio 1808 e che nella medesima data «da Convittore è passato ad Alunno».(7)

            Capita ancora oggi che qualche enciclopedia musicale, che ospita biografie di operisti insignificanti, trascuri Manfroce, giacché l’esistenza di gran quantità di mediocri compositori, ha indotto alcuni ad affastellarlo nel numero dei “minori” destinati all’oblio. Per contro non senza sorpresa si può osservare che si parla di lui laddove  non si sospetterebbe, e infatti un cenno biografico a lui dedicato può leggersi, s.v. “Manfroce”,  nei corposi volumi del Lessico Ecclesiastico Illustrato, edito da Vallardi nel 1904: si citano le sue principali composizioni sacre, le sue opere, i suoi maestri, e si conclude, affermando che nelle sua produzione drammatica mostrò «ricchezza di fantasia, profondità di armonia, ed originalità d’istrumentazione».

           Lo si addita come allievo di Giacomo Tritto 1735-1824), suo insegnante di armonia e contrappunto, e di Giovanni Furno (1748-1837), da cui apprese «partimento ed armonia sonata»; dopo qualche anno ebbe ammaestramenti e consigli non meglio precisati da Nicola Antonio Zingarelli (1752-1837); questi tre docenti formarono in seguito una famosa triade di precettori della scuola napoletana. In effetti a Napoli non studiò mai sotto la guida di quest’ultimo, che vi giunse a fine gennaio 1813, cioè pochi mesi prima della morte di Nicola, che aveva già intrapreso la sua brillante carriera di operista.

             Nicola ricevette consigli anche dal venerando Fedele Fenaroli (1730-1818), il quale, come scrive Florimo, « benché non obbligatovi, e quantunque sofferente per l’età e per gli acciacchi, pure spinto dall’amore che nutriva per l’arte, continuò a dare lezione ai giovanetti più svelti che mostravano attitudine per la scienza armonica».(8) Ciò fa credere che sia stato prodigo di suggerimenti verso Nicola e verso alcuni suoi compagni, che avrebbero lasciato un nome imperituro nella storia della musica, ed è il caso di  Saverio Mercadante (1795-1870) e di Luigi Lablache (1794-1858), il quale, prima di dedicarsi al canto, studiò nel Collegio violino, come attesta un suo autografo, custodito presso l’Accademia Filarmonica di Bologna, contenente la parte per violino ricavata da una Messa di Manfroce.

         In quegli anni a Napoli accadevano fatti straordinari, non escluse pubbliche esecuzioni capitali, e il regno di Giuseppe Bonaparte fu quasi sull’orlo della guerra civile, cosicché Napoleone I, dopo avere represso una rivolta in Spagna, preferì concedere al fratello la corona di Madrid. Al suo posto inviò il cognato Gioacchino Murat (1771-1815), nominato re di Napoli col nome di Gioacchino I, che giunse in città il 16 settembre 1808; sotto la sua direzione ci furono progressi in ogni settore della vita sociale e culturale.

La parte per violino da una Messa di Manfroce, copiata da Lablache quando era allievo del San Sebastiano. (Accademia Filarmonica – Bologna)

Il giovane palmese intanto proseguiva gli studi, e nel 1809, prima di abbandonare la capitale per raggiungere Roma, e porsi sotto la tutela dello Zingarelli, ricevette l’incarico di musicare una cantata per onorare al San Carlo, alla presenza degli “Augusti Sovrani”, l’imperatore dei Francesi. Allo stesso 1809 si fa risalire l’ingresso del milanese Domenico Barbaja (1778-1841) nella gestione dei teatri napoletani, e costui proprio con Manfroce attuò il primo dei suoi felici esperimenti, che consistevano nell’accordare fiducia a giovani promettenti, che gli costavano poco e gli rendevano molto.

             Avvenne così che, su parole di Gabriele Rossetti (1783-1854), il diciottenne Nicola compose Il Natale d’Alcide (Alcide simboleggiava appunto Napoleone Bonaparte), e fu questa la sua prima importante occasione per mettere in mostra il proprio talento. La cantata, quanto mai impegnativa, dovendosi celebrare l’onomastico del grande condottiero, fu eseguita da validissimi cantanti, e il successo fu ottimo, secondo la testimonianza di Rossetti, autore del testo poetico, nonché di questi versi:

 

Più drammi ivi [al S. Carlo – ndr] composi e coronato

Fu da successo ognun de’ miei lavori

Pria di Giulio Sabin l’acerbo fato,

Poi d’Annibale in Capua i folli amori,

E finalmente d’Ercole il natale

Accolti fur da plauso universale.

 

Si trattò di un’ “azione drammatica”, in un atto e sette scene, abbinata a un ballo pantomimico, anch’esso di carattere encomiastico, intitolato I Francesi in Austria, curato dal coreografo Pierre Hus (il giovane), e con musica del conte Wenzel Robert Gallemberg.

Il libretto della cantata Il natale d’Alcide (Dal vol. di P. Giannatonio, Bibliografia di Gabriele Rossetti..., cit.).

Durante l’esecuzione di questa cantata piacque soprattutto Il brano Nò (sic) che non può difenderlo,di cui un esemplare manoscritto si trova presso la Biblioteca del Conservatorio «G.Verdi» di Milano. Fu stampato a Milano nel 1810 dall’editore Ricordi, e, come ha scritto il famoso musicologo belga François Joseph Fétis, «a eu un succès de voguè».

Frontespizio della “Scena ed Aria” – Nò che non può difenderò, custodita presso la Biblioteca Nazionale di Torino (Raccolta Foà – Giordano)

 

Negli anni dal 1804 al 1809 Manfroce, quando gli fu possibile, si recò nei  principali teatri cittadini (San Carlo, Fondo, Fiorentini, Nuovo), e assistette ad alcune delle opere dei numerosi compositori allora in voga. E in quegli anni, dopo l’avvento di Giuseppe Bonaparte e di Murat il San Carlo cominciò a “francesizzarsi” nel repertorio, e a trasformarsi in teatro di corte, per divenire un efficace mezzo di diffusione della cultura e uno strumento di propaganda filogovernativa. Il già citato Maroncelli ottenne che Nicola entrasse con lui in sintonia di pensieri, dopo avere scoperto di avere il medesimo entusiasmo «per uno scattante anticonformismo politico; organizzano, richiamando a sé  altri giovani, e fondano una minuscola associazione di chiare tendenze liberali; il che di per sé enuncia con vigore la ricchezza spirituale tanto di Nicola Antonio, tanto di Piero».(10) Tutto ciò appare piuttosto improbabile, perché tra i due l’amicizia divenne concreta solo nel 1811, dopo il rientro del Palmese da Roma, e, se ben si considera il suo stato di salute, non si vede come e quando avrebbe potuto “entusiasmarsi” al punto di farsi coinvolgere in iniziative sediziose, e correre gravissimi rischi. Ultimati i normali corsi di studio, Manfroce, con l’amorevole consenso di Tritto, secondo un’affermazione di Florimo, si recò a Roma per “perfezionare” i propri studi e porsi sotto la guida di Zingarelli. È da escludere che la ragione della sua partenza da Napoli sia da ricercare nei legami con Rossetti, patriota originario di Vasto, dove nacque nel 1793, ed espulso dalla città partenopea per motivi politici nel 1821, o con lo stesso Maroncelli, incline a progetti sovversivi, che l’autorità costituita era sempre pronta a reprimere. I cospiratori di quella che fu definita “colonna armonica” furono subito smascherati, e si legge che Zingarelli (il fatto pare avvenuto nel 1814), preso da “bassa paura”, fece allontanare dal Collegio circa trenta allievi, compreso il patriota forlivese.  Nicola, che per effetto della sua giovanile esuberanza mostrò una sicura propensione a farsi amico di teste calde, più che pensare alla politica, aveva ben motivo di preoccuparsi della carriera e soprattutto della salute. Con qualifica di “Alunno” del Real Collegio (che compare sul frontespizio dell’anzidetto brano pubblicato da Ricordi), sul finire del 1809 o agli inizi del 1810, salì su una traballante diligenza e si recò a Roma, affrontando un pericoloso viaggio su strade infestate dai briganti, che mettevano a repentaglio la stessa vita dei passeggeri. Arrivato in quella città, si mise subito sotto la protezione di Zingarelli, allora operista di buona rinomanza, che ebbe per lui le stesse attenzioni che avrebbe poi avuto per Mercadante e per Bellini.(11)

 

 

III

ROMA (1809-1811)

 

 

          Anche il periodo vissuto a Roma da Manfroce è finora poco esplorato: la sua presenza in questa città è da collegare con quella di Zingarelli, che lo accolse provvisto, come allora era consuetudine, di qualche lettera “commendatizia”; ad esempio, è facile immaginare che qualche buona parola sia stata spesa da Tritto, a cui non sfuggì il grande valore del Palmese. L’allora famoso autore della Giulietta e Romeo era ben introdotto in quella capitale, dove nel 1804 succedette a Guglielmi come maestro di cappella in Vaticano, incarico questo che non gli impediva di scrivere per il teatro; allorquando Nicola fu con lui scrisse due opere, che si possono considerare conclusive della sua carriera di autore melodrammatico, il Baldovino, rappresentato agli inizi del 1811, e la Berenice, data alla fine dello stesso anno.

         Nel medesimo periodo altri suoi titoli(1) apparvero al Teatro Valle (Ines de Castro)(2) e al Teatro Argentina (Gerusalemme liberata); trovandosi sul posto, il giovane calabrese ebbe occasione di ascoltare questi lavori, e quelli di altri operisti, come Farinelli, Panzieri, Morlacchi, Fioravanti, eseguiti nei teatri romani, e gli fu possibile sentire e valutare in anteprima la voce del tenore Tacchinardi, destinato a cimentarsi nella sua Alzira, ma non quella degli altri esecutori, che giunsero in tempo successivo.

         Quale fosse allora la situazione del teatro d’opera italiano lo fanno bene intendere queste righe di Henri Beyle (Stendhal):(3)  «Un impresario... forma una compagnia con una prima donna, un tenore, il basso cantante, il basso buffo, una seconda donna e un terzo buffo. L’impresario assume un maestro (compositore) che gli scrive un’opera nuova avendo cura di calcolare le arie in base alle voci di coloro che devono cantarle. L’impresario compra il poema (libretto) e spende da 60 a 80 franchi. L’autore è qualche poveretto abate, parassita di qualche famiglia ricca del posto. [...] L’impresario... abbandona la cura degli affari finanziari del suo teatro a un direttore che è solitamente l’avvocato arcibriccone che gli serve da intendente; e lui, l’impresario, s’innamora della prima donna: oggetto di grande curiosità nella piccola città è sapere se le darà il braccio in pubblico.

         La compagnia organizzata in questo modo, dopo un mese di intrighi da farsa che fanno notizia nel paese, dà la sua prima rappresentazione. Questa prima recita costituisce il più grande avvenimento pubblico per la cittadina, un avvenimento del quale non trovo l’eguale a Parigi. Otto o diecimila persone discutono per tre settimane dei pregi o dei difetti dell’opera con tutta la concentrazione di cui il cielo le ha dotate e soprattutto a pieni polmoni. Questa prima rappresentazione, quando non viene interrotta da un putiferio, è seguita in genere da venti o trenta repliche, e successivamente la compagnia si scioglie. Questo si chiama nel suo complesso una stagione. La stagione più importante è quella di carnevale [che aveva inizio il 26 dicembre, e talvolta fu inaugurata anche dall’Alzira – ndr]. I cantanti che non sono impegnati (scritturati) stanno solitamente a Bologna o a Milano dove si trovano i loro agenti che si occupano di piazzarli o di rubarli».

         L’occasione di scrivere un melodramma si può immaginare procurata a Manfroce da Zingarelli, già in trattative col Teatro Valle per far rappresentare il Baldovino, che subì ritardo di circa sei mesi per colpa del librettista Ferretti,(4) cosicché quest’opera fu data dopo quella di Nicola, rappresentata il 10 ottobre 1810 con esito assai fortunato. Trattandosi di un debutto, può darsi che sia stato servito con più sollecitudine, e forse per pressioni esercitate dalla direzione del teatro, desiderosa di scongiurare un fiasco. Il rischio era così elevato (lo fa bene intendere l’espressione “putiferio” adoperata da Stendhal) che era ben difficile che un impresario osasse affidare a un ragazzo un compito tanto complesso e impegnativo.                  

          Avvenne poi che gli spettatori con sorpresa si accorsero che il lavoro dell’allievo era risultato brillantissimo, e qualcuno pensò di farlo notare al suo maestro. Infatti con tono irriverente furono scritturati dei versi in cui si rivolgeva a Zingarelli l’invito a mettersi da parte e a far largo ai giovani, cui ora spettava il compito di rigenerare e di ammodernare il nostro teatro musicale. Il contenuto di quel malevolo componimento,(5)  pubblicato a Milano nel «Corriere delle Dame» in data 19 marzo 1811, è il seguente:

 

Dormi, dormi, mio caro Zingarelli

Dormono anch’essi un Tritta ed un Paisielli!...

Vecchie membra non vuol musica vena;

Amica è sol di gioventù la scena.

Sia pure l’arte tua dotta e metodica,

Ma questa l’è, per dio, troppo narcotica; 

Più non pensare a teatral ridotto,  

Va pure a letto, e prendi un buon pancotto;

Più non pensare a croma e semicroma,

Requie eterna ti canta la mia Roma!

 

 

         È da credere che l’anziano compositore, leggendo queste righe, sia rimasto un po’ male, e quel giovanotto, che egli aveva aiutato, ebbe il dispiacere di vedersi additare come increscioso termine di paragone. Tuttavia in quelle rime ci fu qualcosa di profetico: dopo la Berenice, apparsa nello stesso Valle il 12 novembre 1811, l’anziano musicista, ignaro che avrebbe acquistato ancora celebrità come insegnante di famosi operisti, cessò di dedicarsi al teatro, e di tanto in tanto si applicò alla composizione di brani di musica sacra.  

Ritratto di Nicola Antonio Zingarelli (Da una stampa d’epoca)

 Nicola in effetti non può considerarsi suo allievo, e sembra più rispondente al vero l’affermazione di Fètis, il quale ha affermato che «il recut aussi, à Rome, quelques consils de Zingarelli». Dopo l’andata in scena del Baldovino, che si dice musicato “in dodici giorni” (può darsi che Manfroce abbia in qualche modo collaborato col maestro), ci furono i ricchi festeggiamenti del carnevale, e a marzo accadde un evento destinato a suscitare l’esultanza popolare: giorno 25 nacque il figlio di Napoleone, e gli era stato attribuito il titolo di “Re di Roma”. Molti si rallegravano, ma alcuni si dichiaravano crucciati con l’imperatore che non si faceva mai vedere nella città eterna, e forse “per timidezza”, come sosteneva qualcuno.

         Per il fausto avvenimento furono ordinati in tutte le città dell’impero festeggiamenti con pubblici spettacoli, e si prescrisse che in ogni chiesa fosse eseguito l’inno ambrosiano: a Roma furono invitate tutte le autorità a recarsi in San Pietro per assistere a un solenne Te Deum, della cui direzione era incaricato Zingarelli; costui ebbe l’ardire di non presentarsi all’ora convenuta, adducendo a motivo del rifiuto l’affermazione che l’unico re di Roma per lui era il Papa. Il prefetto ordinò che fosse arrestato e condotto nelle carceri di Civitavecchia, dopo aver fatto visita temporanea alle celle di Castel Sant’Angelo; del fatto venne a conoscenza anche Napoleone, che, essendo un estimatore  del maestro, ordinò che fosse condotto a Parigi e trattato con riguardo.

         Celani, in un articolo apparso sulla «Rivista musicale italiana» nel 1915, afferma che l’episodio è «vero nelle linee generali», e lo stesso poeta Ferretti, parlando della Berenice, ha scritto che Zingarelli «nell’atto che la poneva in musica» fu da Napoleone chiamato a Parigi. Forse si pentì del suo rifiuto, perché, come si legge nella «Enciclopedia dello spettacolo», fra le sue composizioni si annovera una Cantata per la nascita del re di Roma, eseguita nel Campidoglio il 16 giugno 1811, mentre quel Te deum che egli non aveva voluto dirigere, annunciato per il 17 maggio, fu cantato domenica 9 giugno, «intuonato da un clero numeroso ed eseguito con scelta musica».

         La decisione di punirlo era già presa, e per conseguenza Manfroce, se fosse rimasto a Roma, non avrebbe più potuto giovarsi del suo aiuto e del suo conforto perché la partenza per Parigi avvenne davvero,(6) e fu annunciata in una corrispondenza apparsa  sul «Journal de l’empire», con queste parole:(7) «M. Zingarelli, l’un des meilleurs compositeurs de l’Italie, a quitté hier cette ville pour se rendre à Paris..., où il est appelé, dit-on, pour être  attaché à la cour impériale en qualité de maître de chapelle. La réputation de M. Zingarelli est dejà faite par plusieurs ouvrages de premier mérite».

         Si può ben comprendere il dispiacere del giovane palmese nel vedersi privato dell’appoggio di colui che lo aveva favorito e assistito anche durante la composizione della sua opera, come lascia intendere Maroncelli: «nell’anno 1810 di ottobre... egli scrisse a Roma la musica di un dramma intitolato Alzira, sotto la direzione dello Zingarelli, la quale fu assai applaudita ed è lavoro di moltissimo merito per la purezza e castità di canto, la bella condotta e la dottissima parcità con cui gli strumenti accompagnano il concerto della voce, e tuttavia vi si conosce lo spirito originale e diverso ma castigato dal maestro, e talvolta un po’ troppo.» Il successo dell’Alzira, che ebbe le venti o trenta repliche di cui parla Stendhal, fu incontrastato, e l’opera entrò subito in repertorio, perché altri cantanti e altre compagnie la fecero conoscere nel decennio successivo in varie città italiane. Pochissimi tra i sommi compositori in così breve tempo ottennero altrettanta fama e fortuna col primo lavoro drammatico presentato al giudizio del pubblico.

         Il teatro Valle, che, edificato nel 1727, aveva ospitato sulle tavole del suo palcoscenico le opere di insigni musicisti come Jommelli, Galuppi, Piccinni, Sacchini, Paisiello, Cimarosa, e altri, era allora divenuto una «marcita e indecorosa costruzione in legno»: disponeva di una sala piuttosto piccola con la classica forma a ferro di cavallo, cinque ordini di palchi, ed era privo di foyer. L’impresa si accordò con Manfroce alle stesse condizioni a cui furono assoggettati altri operisti, e che possono così riassumersi: la scelta del soggetto da trattare era riservata all’impresario; al maestro si accordava circa un mese di tempo per ultimare la sua fatica, con obbligo di apportare modifiche ritenute necessarie per la migliore riuscita dello spettacolo; per tempo doveva consegnare ai copisti parte del lavoro per evitare ritardi nell’andata in scena; doveva assistere alle prove e durante le prime tre rappresentazioni dell’opera era tenuto «a dirigerla al Cembalo».

         Che il tempo di composizione sia stato brevissimo si arguisce da un altro documento riportato da Rinaldi: si tratta di un’istanza in cui risulta indicata sia la stagione autunnale sia il cast che si cimentò nell’Alzira. Rinaldi si esprime così:(8)  «il 24 luglio, Pietro Verona [erroneo per “Cartoni” – ndr] e compagni facevano domanda per ottenere la privativa del teatro per il prossimo autunno. Daranno – così nell’istanza [in cui si promettevano quaranta recite – ndr] – un’opera seria sotto migliori soggetti, che sono la Colbran, la signora Malanotte, e il signor Tacchinardi». Lo stesso giorno fu accordato il benestare, «firmato dal Maire, duca Braschi», e pertanto nell’intervallo dal 24 luglio al 10 ottobre, cioè nell’arco di due mesi e mezzo,  tutto fu portato a termine.

         L’argomento prescelto, ricavato dalla produzione di Voltaire, aveva più volte fatto capolino sulle scene del teatro di prosa e melodrammatico, e lo stesso Zingarelli nel 1794 aveva musicato un’Alzira giudicata di poco valore e ricordata soprattutto per la bellezza di un brano intitolato “Nel silenzio i mesti passi”. Si prese in considerazione un libretto di Gaetano Rossi (1774-1855), che Manfroce non conobbe mai, il quale aveva preparato un analogo argomento, rappresentato alla Fenice di Venezia col titolo Gli Americani (9) e con musica di Giovanni Simone Mayr.

         Il testo poetico in possesso dell’impresa fu pertanto acquistato da Rossi, alla condizione che potesse essere riveduto e adattato alle esigenze del maestro e dei cantanti, e conformato, in caso di necessità, alle direttive della scrupolosa censura ecclesiastica. Avvenne, come scrive Cametti,(10) che Jacopo Ferretti (1784-1852) «rifece quasi una metà del libro e aggiunse la romanza Povero cor, perchè, soavissimamente cantata dalla Malanotte. Nella prefazione del libretto, questo è presentato come fattura di Gaetano Rossi, ma «con variazioni pel genio della musica e pel gusto del nostro teatro».

         Toccò dunque ai Romani ammirare seduto al cembalo e applaudire un ragazzo di diciannove anni, già bene avviato nella sua difficilissima arte; quel trionfo sembrò aprirgli le porte di una luminosa carriera, e, prolungando il soggiorno, approfittò di quel momento di celebrità per fare varie conoscenze, perché anch’egli, come di solito toccava ai bravi compositori, fu invitato nei salotti delle più distinte famiglie per allietare con la sua bravura le serate musicali. Maroncelli(11) lo fa intendere in modo esplicito: «In Roma esso dimorò amato, onorato e carezzato da tutta la gente per l’anima sua dolce e cantava celestemente, sì che dal piacer di costui era presa ogni donna. Ma venendo ogni dì in mala salute per poca prudenza nei pericolosi mari di Venere infermò gravemente, e dette gran sangue dal petto, fino a che i medici vollero si rendesse in Napoli per respirare buon’aria, dove io mi strinsi d’amicizia con lui».

         Al periodo romano sembra potersi assegnare (o tutta o in parte) la composizione dell’opera Piramo e Tisbe, sulla quale lo scrivente ha pubblicato un articolo,(12) intitolato Quando mai tiranne stelle, un'aria per Semiramide nella “Piramo e Tisbe” di Nicola Antonio Manfroce. È qui trascritto quasi per intero: «[…] Sul suo conto [di Manfroce] rimangono tuttavia parecchi misteri, sui quali non si riesce a far piena luce. Ne è esempio la perdita quasi totale del suo secondo melodramma, Piramo e Tisbe, di cui sopravvivono due frammenti, ma non l’interessante sinfonia, la quale, come afferma il musicologo belga François J. Fétis, «fut considérée comme la plus belle qu’on eût écrite en Italie avant Rossini». Pertanto la prova dell’effettiva composizione di quest’opera si ricava soltanto dai brani appresso indicati. Il primo, costituito dal Duetto Serio L’estremo addio?... spietato, è conservato presso la British Library di Londra (Ms. 41093, sec. XIX, cc. 19), e sotto il titolo reca la dicitura «Vito Perugini Pmotre» [Primo tenore ?].

Frontespizio e prima pagina del duetto “L’estremo Addio?... spietato” dell’opera Piramo e Tisbe di Manfroce (British Library – Londra)

Il maestro Davide Summaria, che ha tanto contribuito alla rivalutazione di  Manfroce, di cui ha revisionato l’Ecuba, da lui stesso diretta a Roma (1980), a Paestum (1989) e a Cosenza (1990), richiesto di esaminare questa piccola partitura, ha espresso il seguente parere:

 

         «Il duetto L’estremo addio dell’opera Piramo e Tisbe di Nicola Antonio Manfroce, preceduto da un brevissimo recitativo (4 battute) accompagnato solo dagli archi, si compone di un andante sostenuto e di un allegro. L’orchestra, inizialmente solo archi, è poi composta con 1 flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti e 2 corni. Nell’andante sostenuto sorprende già l’inizio: in 5 battute 3 modulazioni. Tisbe canta una struggente melodia, cui rispondono, quasi a mo’ di eco, flauti e clarinetti; lamenta il timore di perdere l’amato bene. L’andante si sviluppa con il succedersi di bellissime modulazioni ascendenti sui versi “se mi abbandoni” quasi a sottolineare l’ansia, il timore di perdere l’amato. Conclude l’andante un episodio in cui, su un ritmo incalzante dei bassi, le voci non cantano più alternativamente, ma insieme. Nell’allegro i 2 soprani cantano spesso omoritmicamente e ad intervalli di terza. L’impegno compositivo sembrerebbe meno ricercato rispetto all’andante, forse complici i brevi versi che si ripetono più volte. Non manca però qualche spunto che vedremo poi ripreso e sviluppato nel duetto di Achille e Polissena nel 2° atto dell’Ecuba. Il lavoro evidenzia la precoce genialità dell’autore sia per l’inventiva melodica sia per la sapienza orchestrale che ammireremo ancor più nel capolavoro “ECUBA”.»

 

           Un altro esemplare, con intestazione quasi identica (L’estremo addio, spietato. Duetto Del Sig. D. Nicola Manfroce - Ms. XIX sec., cc. 30), si trova a Lecce presso la Biblioteca privata di Giuseppe Pastore (MS. C. 23), e porta annotate in margine queste parole: «Per divertimento di S.E. la Sig. Duchessina di Canzano» (sembra trattarsi di Beatrice Coppola (1800-1880), principessa di Montefalcone, e duchessa di Canzano).

           Il secondo brano (che l’allora addetto al Museo Cilea di Palmi, Sig.r Nicola De Rosa, mi ha detto di avere acquistato a Roma) è custodito da molti anni nel paese natìo del musicista. Sul frontespizio è scritturato il titolo e la dedica a una nobildonna romana: Quando mai tiranne Stelle / Aria con Cori / Del Sig.r Niccola Manfroce / Dedicata dal Mede[s]mo / A Sua Eccellenza / La Sigra Marchesa Anna Rondanini Ricci  (Ms. sec. XIX - cc. 43).

          Anche in questo caso si trascrive un breve commento del brano, compilato dal Maestro Summaria:

 

           «L’aria “Quando mai tiranne stelle” come la precedente “L’estremo addio …” si compone di un largo e un Allegro; l’orchestra è formata da archi, fiati e un coro maschile. L’accordo iniziale, solenne di FA magg. di tutta l’orchestra, è subito seguito da un accordo dissonante di 7a diminuita. Il canto di Semiramide è introdotto da una melodia affidata al flauto raddoppiato, un’ottava sotto , dal clarinetto. Su i versi “Quando mai tiranne stelle avrà fine il mio tormento” si sviluppa un canto solenne nel registro medio-grave. Soltanto quando i versi saranno ripetuti anche la linea melodica si fa più movimentata, con brevi  passaggi virtuosistici. Molto efficace il movimento cromatico discendente do-si-sib-la-lab-sol- su i versi “avrà il Ciel qualche pietà?” quasi a evidenziare il “tormento” che grava sull’animo della protagonista. L’allegro inizia in modo deciso, forte con gli archi all’unisono sulla stessa linea melodica. Il canto, quasi come reazione al “tormento” dell’adagio, si sviluppa sul registro medio-acuto e sui versi “Ah non regge in sen quest’alma”. L’accento drammatico iniziale è interrotto da una melodia, molto cantabile, affidata ai fiati e presente anche nella sinfonia dell’Alzira. Segue quasi un dialogo fra il canto e l’orchestra. Intanto interviene il coro e un crescendo sempre più drammatico (il canto arriva al do acuto) conclude il brano.»

 

            Finora nessuno si è accorto che questo manoscritto fa parte dell’opera Piramo e Tisbe, e qualcuno resta anche incredulo. Ciò è normale, perché le anime diffidenti per credere hanno bisogno di prove straordinarie.

         A tale conclusione lo scrivente è giunto (e dopo parecchi anni) ben considerando che la presenza del personaggio di Semiramide, interprete di quest’aria, trova piena giustificazione nel racconto mitologico dei due amanti, che si erano scambiati la promessa nuziale. Ovidio, il grande poeta latino, occupandosi del leggendario episodio nel libro IV delle «Metamorfosi» (vv. 55-166), la menziona quando narra che i due giovani abitavano in case contigue nella città di Babilonia, che lei aveva fatto recingere con mura di mattoni («ubi dicitur altam / coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem»). In verità in quella triste vicenda Semiramide ha un ruolo del tutto marginale. La regina, accusata di aver fatto uccidere Nino, suo marito, per dimostrare la propria estraneità all’accaduto, gli fece innalzare un magnifico mausoleo al di fuori della cinta urbana, e talvolta, accompagnata dai concittadini (che formano il “coro” del brano musicale), vi si recava per visitare il sepolcro. Tale luogo, solitario e ombreggiato da un frondoso albero di gelso, fu proprio quello scelto da Piramo e Tisbe per il fatale appuntamento.

           Ritornando alla partitura londinese, è da notare che il testo poetico si riferisce a un momento del dramma che sta bene collocato nella parte centrale del primo atto, allorquando Piramo, in preda allo sconforto per l’amore contrastato dalle rispettive famiglie («lungi mi vuole il Fato anima mia da te»), propone a Tisbe «l’estremo addio»; per contro le parole del brano custodito a Palmi trovano logica collocazione solo nella seconda parte dello spartito, e precedono l’infausto finale con la morte dei due protagonisti. Questo particolare è importante, perché è un chiaro indizio che l’opera ebbe normale elaborazione, e fu completata. L’ignoto poeta (sembra trattarsi di Jacopo Ferretti; nel testo poetico dell’Alzira esiste un verso identico), per dare varietà e per rinvigorire con una scena commovente una trama alquanto debole e difficoltosa da rendere credibile sul palcoscenico, ha immaginato Semiramide disperata presso la tomba dello sposo, mentre interroga le “tiranne stelle” per sapere quando avrà fine il tormento che l’affligge, e se mai il cielo avrà pietà del suo grande dolore. Nello stesso luogo, come scrive Ovidio, cioè presso quel tumulo, giunse Tisbe, e si mise a sedere sotto l’albero convenuto («pervenit ad tumulum, dictaque sub arbore sedit»); poi la situazione volge al termine con il ben noto e tragico epilogo, accanto a quell’albero di gelso, i cui frutti, macchiati dal sangue innocente, da bianchi, quali erano prima, si trasformarono in vermigli.

          La più antica testimonianza su questa composizione, di cui nessuno potrà più negare l’esistenza, risale al tempo in cui Manfroce era ancora in vita, e si può leggere nel volume Nuova teoria della musica ricavata dall’odierna pratica… di Carlo Gervasoni (Parma 1812, pp. 159-60). Le poche notizie che riguardano l’argomento qui trattato sono in queste righe: «Fra la studiosa gioventù dell'Armonia (così mi scrisse da Napoli sul principio del corrente anno 1812 un mio caro ed intelligentissimo amico e collega), che qui in oggi abbiamo, quegli che più di tutti si distingue e che promette di far risplendere vie più la celebrità della Musica napoletana egli è il bravo giovane Nicola Manfroce allievo del nuovo Real Collegio di Musica di s. Sebastiano. Nelle sue composizioni si trova un'armonia variata e pittorica, non che una melodia deliziosa e soave. L'impiego degli strumenti da fiato, il lavoro del basso continuo, il contrasto delle varie parti, tutto in lui è oltre modo ammirabile. La sinfonia della sua Opera Piramo e Tisbe è certamente delle più belle che fin'ora da noi si sieno intese. […] Questo virtuoso filarmonico, che in oggi trovasi nella giovanile età di soli anni ventuno, ha già prodotto col più brillante successo in Roma il Dramma serio Alzira ed una cantata intitolata: Armida. In Napoli il Dramma serioPiramo e Tisbe».

           Poiché tali notizie furono trasmesse a Gervasoni «sul principio del corrente anno 1812», ancor prima che Manfroce iniziasse la scrittura dell’Ecuba, è lecito pensare che la rappresentazione sia avvenuta nella seconda metà del 1811 al San Carlo, o in altro teatro della stessa città; e infatti il giovane maestro era da poco rientrato da Roma, dove si era trattenuto fino al 16 giugno 1811, come attesta una sua lettera recante tale data, in cui ha fatto cenno della sua imminente partenza per Napoli. Che lo spettacolo sia stato dato nel 1811 è inoltre confermato, s.v. Piramo e Tisbe, nella più vecchia edizione parigina del Dictionnaire Lyrique ou historie des Opéras di Fr. Clement e P. Larousse.»

            I sopravvenuti i problemi di salute e le comprensibili preoccupazioni per il proprio futuro non precludevano al ventenne Manfroce la speranza di  tentare la fortuna altrove, e il suo pensiero era già rivolto a Milano, un’altra capitale del melodramma, per iniziare quell’itinerario artistico intrapreso poi con tanto successo da Bellini. Ed ecco a tal riguardo un’interessante testimonianza, fornita dallo stesso compositore in una lettera,(13) di cui è possibile riportare solo un frammento. Si tratta della missiva anzidetta, spedita da Roma il 16 giugno 1811, indicata in un catalogo d’autografi posti in vendita dalla libreria antiquaria Leonardo Lapiccirella di Firenze, e indirizzata al Direttore del Giornale di Musica dell’editore Ricordi di Milano. Nel detto catalogo si leggono queste parole: «[Manfroce] Si ripromette in questa lettera di essere scritturato al Teatro alla Scala. “In occasione che mi porto in Napoli, mi darò tutto il carico di trovargli Associati al Giornale di Musica” ».

Da questa testimonianza si ricava che Nicola non era legato da alcun impegno col Barbaja, che il rientro nella città partenopea era già deciso e imminente, e che le condizioni di salute non erano poi così cattive da impedirgli di guardare con un po’ di fiducia all’avvenire. Fu dunque a Roma che apparvero i primi allarmanti segnali di quel morbo che due anni dopo lo avrebbe condotto al sepolcro, e non si potranno mai conoscere i nomi delle donne che lo accompagnarono nei «pericolosi mari di Venere»: quelli che compaiono sui frontespizi di alcuni manoscritti (la citata marchesa Anna Rondanini Ricci /2 part.re - Teresa Graziani Maselli / 4 part.re - Costanza Valenti /1 part.ra - Paola Corsi / 1 part.ra - le sorelle Poloni / 1 part.ra) dicono poco o nulla, tolta la marchesa Rondanini. L’averle dedicato una composizione, e forse più di una, fa pensare che ciò avvenisse per debito di riconoscenza, e che questa nobildonna sia stata fra quelle che amarono Manfroce “con usura”, secondo un’affermazione di Florimo, il quale di questi intrallazzi amorosi sentì parlare da persone che ne furono bene informate.

          Costei era di certo una persona di grande fascino, forse non più giovane, ma neppure troppo avanti negli anni; appassionata d’opera e probabile dilettante di canto, secondo la moda del tempo, doveva essere ben conosciuta nell’ambiente teatrale capitolino, perché nel volume di Rinaldi13 sui teatri romani si legge, a proposito della rappresentazione di una tragedia di Alfieri, avvenuta il 10 marzo 1798 al Teatro Argentina, che, «[...] Qualche tempo prima che si alzasse il sipario la Randanini [erroneo per Rondanini – ndr], notissima per essere stata l’amante del duca Braschi, nipote di Pio VI, apparve in un palchetto di seconda fila. Quantunque non più giovanissima volle quella sera attirare l’attenzione di tutti.»

 

 

IV

 

NAPOLI  (1811-1812)

 

         Consigliato dai medici romani, Nicola fece ritorno a Napoli, e tale viaggio fu effettuato dopo il 16 giugno del 1811, e l’arrivo sembra quasi certo nel mese di luglio, e  abbastanza in tempo per poter assistere alla rappresentazione della Vestale di Spontini, data al San Carlo l’8 settembre. Florimo ha riferito del suo entusiasmo per quest’opera, diversa dalle consuete allora in circolazione in Italia, che si distingueva per la robustezza della concezione e della struttura, per l’orchestrazione colorita, per la nobiltà dello stile, riversata anche nei recitativi. Si può ben credere che Spontini sia subito diventato il suo idolo, ma è innegabile che anche l’ascolto di Mozart e di Gluck gli abbiano schiuso nuovi orizzonti. È peraltro indubitabile che il Palmese, presente in teatro, sia stato ben lieto di rivedere nei panni della protagonista Giulia il soprano Isabella Colbran, che aveva avuto tanta parte nel successo della sua Alzira.

        Il capolavoro del compositore di Majolati ebbe, come si legge, ventiquattro recite, e tuttavia il pubblico non fu abbastanza soddisfatto; questo lavoro grandioso e magniloquente fece ben altro effetto sull’animo del sensibile Manfroce, e gli rivelò un nuovo modo di comporre, cosicché nell’Ecuba tale influsso appare evidente. Tornato nel San Sebastiano, gli fu chiesto di approntare due brani, da aggiungere nell’opera Clodoveo(1) di Giovanni Battista De Luca,(2) presentata dapprima al Teatro del Fondo il 18 giugno, e poi al San Carlo il 14 agosto 1811, per festeggiare l’onomastico di Murat. È proprio «una nota(3) di Domenico Barbaja, che caldeggiava l’inserimento di due arie di Manfroce (una cavatina e un quartetto) nella ripresa dell’opera del De Luca per il San Carlo» a dare certezza che il famoso impresario ebbe contatto con Nicola; ipotizzando che il compositore per scrivere i due pezzi voluti da Barbaja abbia perso circa dieci giorni, e che la partitura dovesse essere approntata in tempo per le consuete prove, si può concludere, a conferma della supposizione sopraindicata, che già nel mese di luglio 1811 si trovava a Napoli, dove non mancò di recarsi spesso in teatro  per ascoltare quei lavori da cui avrebbe potuto ricavare buoni insegnamenti. Fra gli autori rappresentati prima dell’andata in scena della sua Ecuba vi furono alcuni importanti, come il già citato Spontini, Pavesi, Paisiello, Gluck, Niccolini, e qualche altro.

             Non si hanno notizie sulla sua attività nel periodo autunno-inverno 1811-1812, che forse trascorse dedicandosi alla stesura di qualche brano destinato a essere commercializzato, come, ad esempio, le pregevoli Variazioni sul tema ”Nel cor più non mi sento” di Paisiello, e può anche darsi che proprio in questo periodo sia stato impegnato con la Piramo e Tisbe. Nel San Sebastiano ebbe l’incarico di insegnare canto, e sopravvisse a lungo il ricordo della sua abilità come cantante, se Florimo potè affermare, che cantava bene come baritono, mentre Maroncelli(4)  fornisce indicazioni più precise, che fanno meglio intendere l’eccezionalità del personaggio: «Ma tornando alla musica, costui ho udito io cantare in Fa maggiore e l’orchestra accompagnarlo nel modo di Sol naturale e trovarsi maravigliosamente in egual discordanza sino alla fine. E ciò che più sorprende è che facevalo con un canone a due, dove altri cantava lo scritto ed esso stesso sonava pure lo scritto e cantava nel modo o mezzo tono sottano o il contrario.»

        Viene spontaneo domandarsi: come riusciva a cantare così bene pur essendo minato dalla tisi? E ancora: Maroncelli in quale periodo ebbe occasione di ascoltarlo nella suddetta esibizione? In effetti la loro conoscenza potrebbe risalire al 1809, allorquando Piero arrivò nel detto Collegio, e quando Nicola era in ottimo stato di salute, ma pare più logico riferire l’episodio al rientro da Roma, cioè al 1811, quando il maestro sembrò tornar sano come prima: «Però, scrive Maroncelli, Manfroce lontano dalle donne(5) riebbe salute, e tenne negozi con Domenico Barbaja, dal qual fu condotto per mettere in nota una tragedia al San Carlo». Costui aveva degli amici che lo tenevano informato di tutte le novità teatrali, cosicché gli fu riferito l’esito fortunato dell’Alzira a Roma, e si persuase che la musica del Palmese aveva i buonirequisiti per incontrare il favore del pubblico, ed era il caso di accordargli fiducia.      

        Di ciò si ebbe un’altra conferma nel settembre 1811 quando anche a Napoli  giunse la notizia che l’Alzira aveva furoreggiato a Monza, con la Marchesini e la Malanotte nei principali ruoli;  su questo spettacolo esiste una testimonianza della stessa Malanotte, che ragguagliò sull’esito della rappresentazione il letterato bolognese Francesco Tognetti, comunicandogli in una lettera(6) quanto segue: « Sabato 5 corrente, è andata in scena la nuova opera intitolata l’Alzira, scritta dal Maestro Manfroci, Napoletano, la quale ha fatto il più grande incontro. [...] Nel primo atto è piaciuta la cavatina del tenore Ronconi. La mia cavatina di sortita per la quale il pubblico ha dimostrato il più alto agradimento; il quartetto, scena finale del primo atto, ha fatto un grandissimo effetto. Nel secondo atto poi non saprei dove cominciare giacché è tutto piaciuto, [...] un duetto tra me e la prima donna Sig[no]ra Marchesini, la mia Scena della Prigione, la scena pure della Marchesini benché fosse l’unico pezzo di musica da lei introdotto in questo eccellente dramma, [...]è piaciuto moltissimo. Quello che ha fatto un vero fanatismo fu un duetto fra me e la suddetta Marchesini, e la mia scena della Prigione. [...] Da quanto si possa dire, non si potrà mai spiegare con qual grandezza e magnificenza fu posto in scena questo spettacolo dal Sig[ no]r Balochino, impresario di questo R[ea]le Teatro. Li Milanesi sono rimasti storditi...[...]».

        In quel medesimo periodo apparve un garbato epigramma, pubblicato sul milanese Corriere delle Dame, e trascritto dalla direttrice Carolina Lattanzi(7)

In una malanotte a Monza andai

e un’altra Malanotte vi trovai.

La prima fu per me scura e noiosa,

l’altra armonica, dolce e luminosa.

Allora i’ dissi a lei che mille malenotti

per una Malanotte passerei.

 

        Nel successivo 1812, durante la compilazione di quel melodramma destinato a essere anche l’ultimo da lui esibito sulle scene, la sua salute cominciò a peggiorare, cosicché, come scrive Florimo, egli, desideroso «di divenire qualche cosa nell’arte, dedicava tutto il suo tempo all’applicazione e allo studio, invece di pensare seriamente a curarsi, come tutti lo consigliavano, e di vivere tranquillo, lontano affatto dalle emozioni». Cambiar vita non gli non era possibile, pertanto con tutte le forze affrontò l’impegno assunto, e, avendo Giovanni Schmidt (1775-1840) come collaboratore poetico, scrisse l’Ecuba, ricavata dal libretto di un’opera già rappresentata in Francia.  Nel Clement-Larousse, Dictionnaire lyrique ou historie des opéras, Parigi, s.d., p. 339, s.v. "Hécube" si legge: «Hécube, opéra en trois actes, paroles de Milcent, musique de Granges de Fontenelle, raprésenté à l’Opéra le 5 mai 1800. On reprochait à ce musicien de nombreux plagiats, ce qui fit dire plaisamment que le poëme était de Milcent et que la musique était de Cent mille». Ci fu anche una versione destinata al teatro di prova,  e infatti l’Hécube di Milcent, “tragédie lyrique en 4 actes” fu data a Parigi al Teatro della Repubblica e delle Arti il 13 aprile del 1800 (dal «Catalogue général des livres imprimés de la Bibliotheque Nationale», Parigi, 1932 – tomo CXV, p. 26).

        Schmidt, preferito a Rossetti, divenne poeta ufficiale del San Carlo nel 1810, e in seguito collaborò con molti insigni musicisti, compreso Rossini; ma, quando ebbe a che fare con Manfroce, la sua esperienza come autore di testi melodrammatici era ancora scarsa, e sarebbe stata una bella fortuna per Nicola se avesse trovato a Napoli un librettista ricco di estro e di fantasia come Ferretti. La sua opera fu rappresentata con ritardo perché l’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute aveva creato molta apprensione nel sovrintendente del teatro e nell’impresario; nel timore che la malattia potesse impedirne il tempestivo completamento, fu proposto di sostituirla con l’Ifigenia in Aulide di Gluck, e, per non correre il rischio di non rispettare la programmazione, in fretta e furia si diede incarico a Schmidt di tradurre dal francese il libretto dell’Ifigenia, che apparve sulle scene del San Carlo prima dell’Ecuba. Una nota(8) del duca di Noja, estimatore di  Manfroce, risalente al mese di luglio 1812 (manca l’indicazione del giorno) e indirizzata al Ministro dell’Interno, fa bene intendere che cosa accadde in quei giorni: «Una catastrofe di combinazioni, contrarie al piano proposto è avvenuta per disturbare tutte le operazioni progettate. Il maestro Manfroci nel più bello del suo travaglio, ne è stato distolto da una fatal malattia, che a credere de’ Medici gli porterà la morte».

        L’opera di Gluck fu data il 15 agosto 1812, ed è evidente che in tale giorno doveva recitarsi l’Ecuba, con la medesima compagnia, e che per l’esecuzione di quest’ultima dovettero trascorrere circa quattro mesi. Forse fu un bene, perché se l’opera fosse stata terminata in precedenza avremmo avuto un’Ecuba diversa, e di certo meno curata; se poi teniamo per buono che l’avviso del Duca di Noja, compilato nel mese di luglio, con l’espressione “nel più bello del suo travaglio”, lascia intendere che la composizione fosse già a buon punto, e lo doveva per necessità, dovendo essere pronta per la rappresentazione nel mese successivo, appare chiaro che erano trascorsi almeno sessanta giorni da quando il lavoro era stato iniziato, cosicché l’arco compositivo può estendersi da maggio a novembre del 1812, e negli intervalli in cui lo stato di salute permise al maestro di applicarsi alla scrittura.

        Nell’autunno dello stesso anno al Teatro Nuovo di Napoli fu rappresentato il Don Giovanni di Mozart, ed è facile immaginare che Nicola lo abbia ascoltato, perché qualche reminiscenza di questo capolavoro è presente nell’Ecuba.  Maroncelli(9) nella sua biografia manfrociana è piuttosto parco di parole sulla preparazione di questo melodramma, che dice preparato “in brevissimo tempo”, e tradisce la sua antipatia per Schmidt: «scrisse egli come potè, non come voleva e sapeva, l’Ecuba sua, ma certamente con quel manco di errori che furono combinabili con le antiche pratiche e co’ cattivi versi di quella bolsa e gelata anima dello Smith. E trovò grazia nel pubblico che non si ricordavan per molti anni a Napoli gli onori che riportò».

        In quegli stessi giorni in cui Nicola scriveva le note della sua tragedia per il San Carlo apparve in città una pubblicazione in tre “tomi” che comprendeva un capitoletto interessante sui drammi in musica, sugli oratori e sulle cantate. Il libro,(10) intitolato Istituzione di rettorica e di belle lettere..., compilato da padre Francesco Soave, e pubblicato proprio a Napoli, conteneva acute osservazioni di cui Manfroce può avere avuto conoscenza, magari su segnalazione di qualche persona amica. Vi si leggeva che nell’opera seria il soggetto doveva essere grande, «involgere molti accidenti, e per quanto è possibile nuovi, inaspettati, spettacolosi; esser vi debbono delle situazioni interessanti e patetiche, onde dar campo alla musica di spiegare tutta la sua forza nell’espression degli affetti; ma queste situazioni vogliono essere variate, onde far luogo ad effetti diversi, giacché nella musica non vi ha cosa più intollerabile d’una lunga monotonia, o consista questa in un continuo piagnisteo, o in un frastuono continuo d’ira, di furia, di terrore.

        Ciò che è da fuggire sopra ogni cosa è il languore [a tal proposito è da rammentare il  seguente giudizio di Florimo: «Lo strumentale dell’Ecuba è armonioso, vigoroso, e non mai languido, gli accompagnamenti ben trovati, e sempre adatti alla situazione.» - ndr]: e come languidissimi riescono i lunghi recitativi, ai quali dalla più parte non si bada; così questi debbono generalmente esser brevi, e più azione che dialogo vuolsi nell’opera introdurre.

        A maggior varietà oltre i recitativi semplici ed obbligati, ed oltre le cavatine, e le arie, e i rondò, e i duetti ora voglionsi ancora e terzetti, e quartetti, e quartetti e cori, e finali: cose tutte che quanto accrescono il piacere ove sieno ben condotte e ben eseguite, altrettanto al poeta accrescono  la difficoltà d’introdurle convenientemente  e a proposito: difficoltà che poi s’aumenta a dismisura, quando il poeta è costretto a servire, siccome avviene il più delle volte, alle gare e ai capricci de’ musici, e all’interesse dell’impressario».

        È probabile che la lettura di queste righe abbia suggerito qualche idea per la sua Ecuba, che fu del tutto “nuova” nella spettacolarità dell’incendio finale, fornendo un primo esempio di finali strepitosi con battaglie navali o vulcani in eruzione, come nel caso de L’ultimo giorno di Pompei, musicato da Pacini, che vide  come artefici impegnati nel difficile compito lo stesso cavaliere Antonio Niccolini e i suoi collaboratori, che tredici anni prima si erano cimentati nella realizzazione del finale dell’Ecuba.

         A tal riguardo Paolo Isotta(11) ha notato l’audacia di Manfroce nel sottoporre al giudizio del pubblico una conclusione in contrasto col tradizionale lieto fine, che avrebbe potuto irritare gli spettatori: «A Napoli opere che finivano alla francese, dopo essersi svolte alla francese, s’erano già viste. Ve la figurate un’udienza napoletana che per lo sdegno non fracassa le poltrone e incendia il teatro dopo aver visto un’opera che si chiude con un asperrimo recitativo accompagnato (quindi «Scena») e una brevissima «Sinfonia» descrittiva? A leggere i musicologi uno non se l’immaginerebbe un’udienza napoletana tranquilla in un caso del genere: eppure questo era avvenuto, in un anno, mese e giorno ben determinati: alla première dell’Ecuba di Manfroce».

         È poi da rammentare che, musicando l’Ecuba, il Palmese apportò un considerevole incremento  rispetto a quello dell’Alzira, dell’organico orchestrale: primi e secondi violini / viole divise / violoncelli / controbassi / traverso / flauto / due oboe / due clarinetti / due fagotti / due corni / due trombe / due tromboni tenori / serpentone / timpani / arpa. Ciò è da porre in relazione con le novità avvenute nell’organico orchestrale nel 1810.

Disposizione dell'orchestra del Teatro San Carlo di Napoli negli anni intorno al 1810. Progetto di ANtonio Niccolini

  Intanto  Barbaja si rese conto che non avrebbe più potuto fare affidamento sullo sventurato compositore, e al coreografo Gaetano Gioja, che gli comunicava da Milano l’esito de La pietra del paragone di Rossini, il  6 ottobre 1812 rispose col solito linguaggio rozzo e sgrammaticato, e tuttavia comprensibilissimo:(12) «la ringrazio della notisia che mi da del opera lei mi propone questo maestro rosini io ho già Scriturato tutti li maestri tanto per San carlo che per li fiorentini per questo Ano e l’ano venturo [intendeva: per la stagione 1812-1813 – ndr] ma si potra darci una Scritura per l’altro Ano e questo ne parleremo nel mese entrante».          

     Venne poi il giorno del debutto dell’Ecuba, dopo le prove, che in genere si protraevano per due settimane. Il successo fu incondizionato, e, come scrive Florimo, «di vero entusiasmo, e quasi in tutti i pezzi il pubblico voleva rivedere il maestro sul proscenio per applaudirlo, e [...] le sue deboli [«mancanti», nella migliore edizione del 1869] forze furono sufficienti per farlo assistere a replicate rappresentazioni della sua Ecuba e gustare la voluttà [«l’inesplicabile diletto», nell’edizione del 1869] del trionfo ma anche di un premio straordinario. [...]» Questo premio consisteva in una pensione «da pagarsi dalla Real tesoreria», per farlo viaggiare all’estero e perfezionarsi nella sua arte, ma, considerata la gravità del suo stato, può darsi che tale provvedimento sia stato un modo garbato per fargli avere del denaro che avrebbe potuto servirgli durante la malattia. Se ne servì forse per il viaggio a Roma, avvenuto dopo le recite dell’Ecuba, e vi andò fiducioso di trovarvi un bravo dottore capace di strapparlo alla morte.        

         Mentre componeva l’opera per il San Carlo, col pensiero fisso alle sue precarie condizioni di salute e alla famiglia lontana che non avrebbe più potuto aiutare, a Nicola non mancò il conforto degli amici, e in particolare di Maroncelli, che, secondo quanto afferma egli stesso, seguì le vicissitudini delle sua fatica:(13) « Ecco come io avvisai la mente del Manfroce essere altissima. Non aveva egli composto mai di tal genere, ma però profondamente studiato nel Durante, nel Porpora, nello Scarlatti e nel Pergolesi, le dottrine de’ quali, tolte dall’aridità scolastica, vedea poste su le scene con abito grande e maestoso dal Sacchini, dal Jommelli, dal Sarti e dal Gluck. Ebb’egli appena fissato l’animo in questi sublimi esemplari, e senza più ogni sua scrittura era tragica. Io feci accorto il Manfroce sulle ignoranze che solevano farsi da’ compositori, e tosto l’ebbi meco in ogni mio pensamento. Se non che quando fummo all’opera , ci accorgemmo ben presto delle molte difficoltà che portava l’impresa». Scrive ancora Maroncelli: «Tal volta che si dava a comporre pareva inspirato e non sentiva se pur anche si fosse percosso. Tal altra (e questo è stato più nel tempo dell’ultima malattia) dormendo sognava di scrivere la sua Ecuba e svegliato che era adoperava la musica che gli si era offerta all’immaginativa in sogno. Il duetto del 3.° atto scrisse tal quale il sogno.»        

       La composizione dell’Ecuba fu dunque il lavoro di un ragazzo di ventuno anni che già sapeva di condannato alla prematura scomparsa; il suo dramma personale finiva con l’intrecciarsi con la tragedia che stava scrivendo, e «il suo  lavoro, come scrisse Florimo, progrediva di pari passo col male che lo trascinava al sepolcro: e quando i medici disperavano della sua guarigione, egli componeva gli ultimi pezzi di musica dell’opera».        

        La rappresentazione avvenne «per la prima volta nel teatro di San Carlo nell’inverno dell’anno 1812», giorno 13 dicembre. Vi assistette Carolina Murat, e accanto a lei c’erano alti dignitari, ma non il consorte,  re Gioacchino, impegnato nella disastrosa campagna di  Russia, il quale, dopo aver sostenuto invano i destini di Napoleone, si apprestava a mettersi sulla via  del rientro a Napoli. 

Il Real Teatro di San Carlo agli inizi dell’800 (Da una stampa d’epoca)

 

Accanto alla regina o in un palco vicino c’era di sicuro quella “marchesa N.N.”, invisa a Maroncelli, ma forse cara a Manfroce, che può aver trovato in lei un qualche riverbero di quegli affetti familiari preclusi dalla lontananza. Codesta marchesa, e nulla vieta di pensarlo, potrebbe aver caldeggiato l’intervento della regina in suo favore.

       In quei giorni la sorella di Napoleone faceva le veci del marito assente, cosicché, terminata la recita, come riferisce Florimo, «mandò a complimentarlo e a fargli le sue sincere congratulazioni pel brillante successo ottenuto; e dovette realmente rimanere soddisfatta, perché appena ebbe conoscenza che la salute del Maestro era in pericolo, diede disposizione che si riunisse un consulto dei primi medici della capitale e si provvedesse a tutto il bisognevole onde venisse sollecitamente arrestato il male e curato con tutti i mezzi che l’arte salutare sapeva indicare opportuni e tutto a di lei spese».

       Sta di fatto che c’era ben poco da fare, e lo storiografo sangiorgese informa che si fecero intervenire i professori della  facoltà medica, con in testa il celebre Domenico Cotugno (1736-1822), e che l’unico rimedio trovato fu quello «di mandarlo a respirare l’aere salubre e balsamica di Pozzuoli». In una pubblicazione(14) dedicata a questo famoso “Regio Archiatro” si legge che «Chiamato a’ Consulti, ed a’ Collegi solea mettere in veduta, quasi più col pennello, che colla lingua lo stato dell’infermo, rimontare all’origine del morbo, descrivere la naturale virtù de’ rimedj, e  mostrarne l’opportunità al caso, che aveva per le mani. [...] Ad onta delle insinuazioni de’ familiari, e di qualsivoglia altro riguardo, era sincerissimo nel manifestare agli infermi il loro pericolo: più e più volte, mentre altri Professori non ne aveano il coraggio, egli senza indugio prescrisse i SS. Sacramenti; il che sempre eseguì con eloquenza cristiana tanto gentile, e tanto efficace, che sgombrò dagli animi costernati il loro importuno timore».

Litografia con ritratto di Domenico Cotugno

 

Pertanto è pacifico che il dottor Cotugno non nascose a Manfroce quale brutta fine l’aspettasse, e tuttavia il soggiorno a Pozzuoli poteva essere di qualche sollievo in quella tragica situazione. Che poi vi sia andato si può anche dubitare, perché, secondo quanto afferma Maroncelli, Nicola, benché prossimo alla fine, prese altra strada, dopo essere rimasto a Napoli durante tutto il mese di gennaio, allorquando si diedero parecchie delle quattordici repliche (mediamente due per settimana) dell’Ecuba, cui subentrò, quando fu tolta di scena, la Zaira di Federici, rappresentata al San Carlo il 9 febbraio 1813.

        Nel mentre ci furono tentativi della Marchesa N.N. di averlo con sé a Caserta: «Poco di poi, scrive Maroncelli, peggiorò nella salute, tra per la molta fatica posta nella tragedia che scrisse in brevissimo tempo e per l’ismodata lussuria, che riprendendo dal dì che fu ristabilito [intende il periodo di benessere di cui il compositore godette dopo il rientro da Roma – ndr] e per essa infermando da capo seguitò sempre per gli maledetti conforti della marchesa N.N. la quale fece sì misero strazio del corpo di Nicolò, ch’egli uscendo un tratto dalle sue braccia ov’erasi tenuto tutta la notte le cadde a piè della scala, menando per la bocca grande sprazzo di sangue. Quella crudele femmina bestialmente carnale conducevalo a consentimenti di libidine fino sul letto di morte, perocchè avendo io alle mie mani una lettera che quella malnata gli mandava, stimolando e pregando che dovesse andar tosto per lei (ell’era allora con la corte a Caserta, gavazzando nelle delizie dell’incantato soggiorno) procurai che nè quella nè altre avesse giammai il mio moribondo amico. Ma troppo tardi. Ben egli sanò dei lordi presenti, onde avealo onorato quell’alta madama, ma non della tisia in cui per questi era caduto; ...».

        Traspare in queste righe tutta l’acredine di Maroncelli verso la sensuale nobildonna, e sembra accresciuta dal convincimento che costei abbia procurato a Nicola la sifilide o altra malattia venerea (“lordi presenti”), cosicché danni subiti si aggiunsero in modo funesto con la tubercolosi. Escludendo che la filarmonica marchesa possa identificarsi con la Rondanini, di cui si è già detto, e che Manfroce sia stato in intimità (come da qualcuno si sostenne) con la stessa regina Carolina, non estranea ad amori adulterini, non si sa proprio chi mai possa essere stata questa “marchesa N.N.”, appartenente a una delle prime famiglie della città, e molto in vista perché bene inserita nella corte regale.

         I marchesi presenti a Napoli in quegli anni erano numerosi, e non è facile sciogliere l’indovinello che si nasconde in quella sigla “N.N.” di Maroncelli. È poi risaputo che quasi tutte le famiglie di quel tempo, nobili e meno nobili, spalancavano volentieri e quasi con compiacimento le porte dei loro palazzi  ai valenti musicisti, desiderati e bene accolti perché della loro arte ci si serviva per allietare le serate. Nei salotti di ogni rispettabile casa si amava allora far musica e ciò implicava il possesso di una buona scorta di brani musicali, o partiture complete di melodrammi, ridotti soprattutto per strumenti a tastiera. Fu così che venne in voga la manìa del collezionismo, e tra gli appassionati raccoglitori d’autografi a Napoli si ricordano i marchesi Minutolo Capece dei Principi di Canosa e Pasquale Caracciolo, marchese d’Arena, che, coadiuvato negli “acquisti” dalla moglie marchesa Eleucalia,(15) faceva provvista di tali preziosi manoscritti. Costui nel 1814, poco dopo la morte di Nicola, pubblicò un catalogo, in cui è inclusa un’intera partitura manoscritta dell’Ecuba, e non si conosce come ne sia venuto in possesso.

          Dovendosi escludere che possa averla avuta da  Barbaja, proprietario dello spartito, che delle carte musicali, come è  provato, era gelosissimo custode, ed essendo certo che nessuna copisteria, potendolo fare, avrebbe osato trarne una copia e cederla dietro corrispettivo, è lecito pensare che quello spartito sia stato donato al marchese o a sua moglie dallo stesso Nicola. Potrebbe anche darsi che, lasciato in modo occasionale presso quella famiglia, quello spartito vi sia rimasto, come in abbandono, dopo la morte del maestro.

 

 

V

ROMA -PUZZUOLI (?)  - NAPOLI (1813)

 

 

 Come fa intendere Maroncelli, Manfroce, che non si recò a Caserta presso la marchesa N.N., dove costei si trovava con la famiglia reale e con la corte, intraprese lo stesso avventuroso e scomodo viaggio che Gioacchino Murat nel medesimo periodo aveva fatto a ritroso.(1) Il sovrano, reduce dalla Russia,(2)  nel suo tragitto da Roma a Napoli verso fine gennaio si era lamentato «in termini violenti» con chi lo scortava del cattivo stato di quelle strade, che Nicola, a detta del suo amico Piero, «mal consigliato», si apprestò a ripercorre, allorquando «andò a Roma la seconda volta».

       Questo suo ritorno in quella capitale è una novità rilevante: né Florimo né altri biografi ne hanno mai parlato. Maroncelli, che non aveva motivo alcuno per raccontare frottole, ha inoltre affermato:(3) «Ove [cioè a Roma – ndr], o fosse ria natura di male, o non salutare aria del loco, o ancora novelle mosse ostili usategli incontro dalle nobilmente sdegnose e pur sempre intemperantissime Tiberine, da inde a pochi mesi morì, e vinte già tutte le forze del fisico non gli sfuggì mai l’animo, e con quella soave e modesta serenità che in vita lo assomigliava più presto ad un etereo spirito che a mortal uomo, volò in cielo».

        Prima di partire, Nicola poté riabbracciare, appena giunto da Roma, il suo amato Zingarelli, che aveva deciso di trascorrere a Napoli gli anni della vecchiaia. E infatti in data 17 dicembre 1812, aveva informato così(4) il marchese di Circello, ministro di Murat: «Partecipo alla S.V. che ho rinunziato al posto di Direttore della Scuola Romana, ed ho detto ingenuamente che preferiva servir la mia Patria, cui debbo tutto». Il successivo giorno 28, in altra lettera,(5) avendo appreso che «S. Maestà [la regina Carolina – ndr] siasi degnata con tanta clemenza accogliere le mie premure in voler servire il Conservatorio di Napoli coi miei scarsi lumi», aggiunse: «Io sono sempre pronto a partire, purché lo passa fare con quiete d’animo», e pertanto il suo arrivo a Napoli avvenne in gennaio e non piuttosto, come ha asserito Florimo, «sullo scorcio del 1812».

Nello stesso anno 1813 Nicola, che nel Collegio era incaricato come «Maestro interno del gusto di Canto de’ giovani Soprani e Contralti»,(6) ricevette una “gratificazione”di 264 ducati(concessagli forse per il viaggio a Roma, e di certo per aiutarlo nella sua difficile situazione). Non sorprende che in seno al San Sebastiano gli abbiano assegnato tale incarico, avendo già accennato alla sua bravura come cantante. Non gli difettava neppure l’avvenenza fisica, che affascinava le donne, ed è ben nota la descrizione che d lui ha fatto Florimo,(7) un ritratto da giudicare più veritiero nella prima versione del 1869-1871, che non piuttosto in quella del 1880-1884, quando ebbe come collaboratore il giovane e inesperto Michele Scherillo.(8) 

 Anche Maroncelli(9) ha scritto qualcosa di interessante sull’aspetto di Nicola, e la sua testimonianza è altrettanto preziosa: «ò trovato che un altro angiolo vivo tutte ritrae le sembianze di lui: si è Tognetta Pallerini sublime gestitrageda che non è stata sin qui uguagliata e difficilmente il sarà. L’atto del volto, la bella bocca, il mento, gli occhi e l’aria di paradiso impronta (sic) in tutta la persona era pur simile in Manfroce.» Il patriota forlivese conobbe Antonia Pallerini (1790-1870), quasi coetanea di Nicola, non a Napoli, da dove andò via nel 1814 e dove costei giunse per la prima volta nel settembre del 1815, bensì a Milano in uno negli anni successivi in cui la famosa danzatrice si esibì alla Scala.

Maroncelli, più piccolo di quattro anni, ha dimostrato grande affetto e molta stima per lo sfortunato amico, che ricambiava la sua affabilità, e trovava in lui una gradita consonanza di pensieri, cosicché i due arrivarono al punto di progettare, forse mentre l’Ecuba era ancora in cantiere, una futura collaborazione: Maroncelli gli avrebbe fornito il libretto di una “tragedia” e il Palmese l’avrebbe rivestita di note. Tutto questo si deduce da un altro punto della sua biografia, laddove si legge:(10) «Spesso ei parlava meco d’una tragedia che voleva ch’io scrivessi per lui, seguitando quegli accorgimenti sopra discorsi, e tutti e due non eravamo per avventura poco innanzi, quando il tolse la morte. Egli era sì pieno di questo pensiero che dicea dover essere quell’opera il suo capolavoro,  e poi che l’avesse menato a fine morirsi contento.»

Tale “pensiero” sembra avere avuto qualche attuazione, come lasciano intendere le parole: «non eravamo per avventura poco innanzi», ma non è possibile ipotizzare neppure l’eventuale argomento preso in considerazione, dovendosi escludere che si sia trattato della Piramo e Tisbe, già menzionata. Il mistero sarebbe ora risolto se il Maroncelli avesse accennato almeno il titolo.

Florimo, che non sempre è nel vero per via delle informazioni errate di cui venne in possesso, dà per certo il viaggio a Pozzuoli, ma si mostra poco sicuro di quanto accadde. E infatti di quella permanenza fornisce due versioni un po’ discordanti: nella biografia del 1869 afferma che «disgraziatamente non ritrasse da quell’aere vantaggio alcuno anzi, perché di troppo avanzato il male, più ardente si dichiarò la febbre che lo consumava, di modo che fu obbligato di tornarsene subito in Napoli»; nella seconda biografia vi è un’aggiunta, che contrasta con l’immediato rientro in Collegio. Ha scritto: «Ma, invece, non ne ritrasse vantaggio alcuno; anzi la febbre, dopo pochi mesi, aumentò tanto da obbligarlo a ritornarsene subito in Napoli, ed egli si recò nel Collegio di San Sebastiano che considerava come la sua seconda casa paterna»

        I “pochi mesi”, di cui si parla in questo secondo caso (la modifica potrebbe imputarsi all’incauto Scherillo), è invece più ragionevole riferirli all’ultimo periodo di vita trascorso a Roma.  Pertanto, se Manfroce, ascoltando le parole dei medici, andò a Pozzuoli, ciò sarebbe avvenuto a fine gennaio o nel mese di febbraio del 1813; rientrato “subito” a Napoli, fu, come riferisce Maroncelli (che non aveva motivo di inventarsi qualcosa di simile), “mal consigliato”, e, speranzoso di potersi ancora salvare, si diresse a Roma.

La sua misera fine fu descritta con commoventi parole da Florimo, che la dichiarò avvenuta a Napoli; ha raccontato (senza esserne stato testimone) che i suoi compagni, “scorati e mesti” e piangenti intorno al suo letto, «ricevevano gli ultimi suoi sospiri». Il famoso storiografo di San Giorgio Morgeto ha riferito che «fu sepolto nella Chiesa annessa al Collegio, dove fu celebrata una solenne messa funebre diretta dall’egregio suo primo maestro Giacomo Tritto, ed eseguita dai maestri e dagli alunni, non che dai più chiari professori di Napoli»,(11) che vollero graziosamente intervenire. La Chiesa di San Sebastiano, ora chiusa al culto, era situata nel pianterreno del cortile interno del Collegio.

Considerando veritiero quest’ultimo episodio, è lecito immaginare che Nicola Manfroce, morto a Roma, fu subito trasportato a Napoli per i funerali e per la sepoltura. Se i fatti non si svolsero così, può essere avvenuto che,perduta ogni speranza, chiese di tornare a Napoli poco prima di morire. Il dubbio rimane, mentre è fatto certo che la sua morte a Roma è indicata  in altri due cenni biografici ottocenteschi.

        Ecco infine le commoventi parole(12) diMaroncelli, che mostrò di amarlo come un fratello, e volle così venerarne la memoria: «Questo fu N. Manfroce, nel compor musica celebrato maestro, di elevatissimo ingegno, caldo, buono, e dolcissimo amico; magnanimo, generoso e al tutto veramente italiano. Pare che la sua eccellenza nella musica egli tenesse da proprio intrinseco e fisico abito... Oh buon Manfroce, che fosti sempre dolcissima parte di me medesimo, se nel bel tempo della vita ebbi mai teco alcuna grazia e se in cielo largamente t’arride il vivo sole che non patì mai sera, prendi in grado quest’umile fiore ch’io spargo su la tua tomba, e le lacrime vere che mi piovon dagli occhi per lo sconsolato abbandono in cui mi lasciasti, e per le recise speranze che doveano levar sublime al cielo la possente lira che fu dell’invilita Italia tornata bastarda! La quale in tale sventura pur con me insieme implora un tuo sguardo a tanto compianto e lamento».

La Chiesa annessa al Collegio di San Sebastiano (Lit. Cardone – Napoli).

NOTE

CAPITOLO PRIMO

  1. Rocco Calogero, palmese, parroco di Castroreale Bagni (ME), in un opuscolo intitolato Dopo dieci anni –La Madonna del Carmine e il terremoto del 16 novembre 1894 in Palmi Calabria, Tip. G. Crupi, Messina 1904, p. 64, ha scritto che nel centro del paese «sorgeva l’indimenticabile stupendo monumento della civica Fontana, che pure il terremoto del 5 febbraio 1783 si era degnato di risparmiare.»

  2. Francesco Lovecchio, Bicentenario della nascita di Nicolantonio Manfroce, in L’Impatto», Reggio Calabria, anno II, n. 3, 15 febbraio 1991.

  3.  Domenico Ferraro, Nicola Antonio Manfroce – Nella vita e nell’arte, ed.   Pellegrini,Cosenza 1990, p. 12.

  4. Rocco Liberti, Organi, organari, maestri di cappella e doratori nella Calabria Ulteriore tra ‘700 e ‘800, in «Banca Popolare Cooperativa di Palmi», Palmi, fasc. 2/1994, p. 76.

  5.  D. Ferraro, N.A. Manfroce, cit., pp. 14-15.

  6.  F. Lovecchio, Bicentenario della nascita di N. Manfroce, cit.

  7.  Francesco Florimo, Cenno storico sulla scuola musicale di Napoli, Tip. Rocco, Napoli 1869-71.

  8.  Giacomo Rol, La Lira Partenopea-Sicula ovvero Profili biografici dei più celebri maestri di cappella napolitani e siciliani dettati dal Cav. Giacomo Rol, Tip.  Nicotra, Messina 1873, pp. 52-4

  9.  Nunzio Lacquaniti, Classi sociali a Palmi nel XVIII secolo, in «Banca Popolare Cooperativa di Palmi», Palmi, fasc. 1/93, agosto/novembre 1993, p. 53.

  10.  Codesti brani furono stampati a Napoli qualche anno dopo l’apparizione del capolavoro rossiniano, dato alla Fenice di Venezia nel 1823. Sul frontespizio  si   legge: a) Tema con variazioni per flauto solo nella Semiramide, composte e dedicate al Sig.r Luigi Versace dal Maestro Natale Manfroci – Tema: Va  superbo inquella reggia [atto I – scena VII] – Variazioni n. 6 – Calcografia Settembre e Negri [Catalogazione: L. 21. 1/a]; b) -Tema con variazioni per      flauto solo nella Semiramide, composte e dedicate al Sig.r Luigi Versace dal  Maestro  Natale Manfroci –Tema: Quei numi furenti [atto II – scena IX] –  Variazioni n. 5 –Calcografia Settembre e Negri[Catalogazione: L. 21. 1/b].

  11.  Carmelo Neri, Bellini. Nuovo epistolario – con documenti inediti (1819-1835),   Aci Sant’Antonio (CT) 2005, pp. 346, 348, 353.

  12.  La delibera del 10 giugno 1859 con la quale il Decurionato palmese intitolò a Manfroce «la strada ed il piano della Muraglie» è riprodotta e trascritta da  F. Lovecchio in Una “ricerca”quasi casuale ed un... “invece” che lascia perplessi, in «Banca Popolare Cooperativa di Palmi», Palmi, n. 1/93 (agosto- ottobre), pp. 37-40.

  13. Paliotti, considerato «fra i più freddi esponenti della corrente romantica», fu decoratore e pittore di quadri storici. Il suo ritratto di Manfroce, olio su tela cm. 70x50, custodito nel Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, è probabile copia di una miniatura del maestro, che si dice (ma non si sa quale fondamento abbia questa notizia) appartenuta a una nobildonna napoletana.

  14. Cfr. Ritratti di compositori, a cura di Giorgio Taborelli e Vittoria Crespi, ed. De Agostini,  Novara 1990, pp. 118-20.

  15. Nicola Oliva, Il monte Aulinas, Tip. Lo Presti, Palmi, 1890. Si tratta del Canto XV, p. 150, inserito anche nell’opuscolo di Giuseppe Silvestri Silva, Illustri Musicisti Calabresi, - Nicola Antonio Manfroce, Tip. Nazionale, Genova 1933, p. 23.

CAPITOLO SECONDO

 

  1. Salvatore Di Giacomo, Il Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana e quello di S.M. della Pietà dei Turchini, ed. R. Sandron, Roma s.d., p. 221.

  2. F. Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatori, Tip. Morano, Napoli 1880-1884, vol. II. p. 36.

  3. Ibid., p. 36.

  4. Francesco Pastura, Bellini secondo la storia, ed. Guanda, Parma 1959, pp. 44-5.

  5. Piero Maroncelli, Notizia intorno agli studi ed alla immatura morte del musico maestro Nicolò Manfroce, in «Il processo Pellico – Maroncelli...», a cura di A. Luzio, ed. Cogliati,  Milano, 1903.

  6. F.  Florimo, La Scuola musicale..., cit., vol. II, p. 103.

  7. D. Ferraro, N. A. Manfroce, cit. p. 28.

  8. F. Florimo, La Scuola musicale..., cit., vol. II (in cenno biografico su “Fenaroli”).

  9. Pompeo Giannantonio, Bibliografia di Gabriele Rossetti (1806-1858), ed. Sansoni,Firenze,1978,  p. 77.

  10. Marcello Passeri,  Aveva innovato prima di Rossini, in «La Gazzetta del Sud», Messina 13 ottobre 1978.

  11. Che ciò risponda al vero si può dedurre anche da queste parole contenute in un necrologio di Bellini, pubblicato sull’ «Omnibus» di Napoli (anno III, n. 30), in data 17 ottobre 1835: « [Bellini, come allievo dello Zingarelli,] fu nel numero de’ privilegiati, com’erano stati eziandio Mercadante e Manfroce».

CAPITOLO  TERZO

 

  1. Alberto De Angelis, La musica a Roma nel sec. XIX, ed. G. Bardi, Roma, 1914, p. 165.

  2. Nel volume Il Teatro Regio di Torino 1740-1990 – L’arcano incanto, ed. Electa, Milano 1991, a p. 266 si legge che nella stessa stagione in cui fu data l’Alziracantò al Valle un altro celebre contralto, Rosa Morandi, ma non è sicuro che si sia esibita, magari come sostituta della Malanotte, anche nell’opera del Manfroce: «...Rosa Morandi è ritratta in un’incisione che, come il sonetto che l’accompagna (“che ha meritatamente riscossi doppi applausi”) al Teatro Valle di Roma nella stagione 1810, che vide rappresentare: Ladistruzione di Gerusalemme e Ines de Castro di Nicola Antonio Zingarelli, Didone abbandonata di Valentino Fioravanti e Alzira di Nicola Antonio Manfroce (con Isabella Colbran)».

  3. Trascrizione dal vol. Rossini di FrédéricVitoux, ed. Rusconi, Milano, 1991, p. 47.

  4. Mario Rinaldi, Due secoli di musica al Teatro Argentina, ed. Olschki, Firenze, 1978, p. 435.

  5. M. Rinaldi, Ibid., p. 436.

  6. Si legge che Zingarelli a Parigi fu trattato con ogni riguardo, che gli fu commissionata una Messa, retribuitagli con 6000 franchi, e che poi fu lasciato libero di tornare a Roma. (Cfr. «Il Corriere di Napoli» del 6 aprile 1812).

  7. M. Rinaldi, Due secoli di musica..., p. 439.

  8. M. Rinaldi, Ibid., p. 426.

  9. Dal frontespizio del libretto de Gli Americani si legge che si trattava di un “melodramma  eroico” in due atti: i personaggi sono gli stessi dell’Alzira, con la sola differenza che la protagonista anziché Alzira ha nome Idalide. L’opera  fu data il 26 dicembre 1805.

  10. Alberto Cametti, Un poeta melodrammatico romano: Jacopo  Ferretti, Milano, Ricordi, 1897.

  11. P. Maroncelli, Notizia intorno agli studi..., cit., p. 414.

  12. Articolo pubblicato nella ricorrenza del bicentenario della morte di N.A. Manfroce sulla Rivista «Calabria sconosciuta » (Anno  XXXVI, n° 137/138 – Gennaio Giugno 2013). L’articolo è stato riprodotto con identico contenuto sul periodico NEWSLETTER 119 June 2013 della Donizetti Society di  Londra.

  13. Si tratta del catalogo N° 2,  pubblicato dal famoso libraio antiquario nel 1957. L’indicazione relativa alla lettera del Manfroce è a p. 39 – progr. N. 92. L’autografo, di cui non si sa più nulla, si componeva di un foglio di mm. 240x160, righe 16, data e firma. – Prezzo di vendita: L. 4000. Codesto catalogo è consultabile presso il Museo Belliniano di Catania.

CAPITOLO QUARTO

 

  1. La parte di Clodoveo fu interpretata dal contralto Erminia Fenzi, e la Colbran sostenne il ruolo di Clotilde.

  2. Intorno al De Luca, anch’egli un giovane “di belle speranze”, in attività a Napoli tra il 1807 e il 1811, si hanno scarse notizie biografiche. Fu autore anche delle opere I due Policarpii, La maschera fortunata e Bajazet, le cui partiture furono stampate dallo Stabilimento Musicale Partenopeo.

  3. Toscano R. Tobia, Il rimpianto del primato perduto (dalla Rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat), in Il Teatro di San Carlo, vol. II, Napoli, 1987, p.112 (n. 252). Cfr. anche Francesco Cento, Nicola Antonio Manfroce - Appunti sopra una meteora musicale, in «Calabria letteraria», anno LI, aprile-maggio–giugno 2003, pp. 89-93.

  4. P. Maroncelli,  Notizia intorno agli studi...., cit., pp.415-16.

  5. La fama di Manfroce rovinato dalle donne, come avvenne nel caso Bellini, durò a lungo a Napoli, e nel 1881 Carlo del Balzo  su  «L’Illustrazione Italiana», II semestre, p. 124, scrisse:  «Amava l’arte e le donne; l’arte gli fece meno amare le ultime ore della sua vita. Le donne ardentemente lo riamarono, ma si dice che esse, voluttuosi vampiri, gli avessero anzi tempo succhiata la vita.»

  6. Custodita presso l’Accademia Filarmonica di Bologna.

  7. Riportata in Giorgio Appolonia, Le voci di Rossini, ed. Eda, Torino, 1992, pp. 102-3.

  8. Toscano R. Tobia, Il rimpianto del primato perduto (dalla Rivoluzione del 1799 alla caduta di Murat), su Il Teatro di San Carlo, vol. II, Napoli, 1987, p. 112 (n. 252).

  9. P. Maroncelli,  Notizia intorno agli studi..., cit., p. 415.

  10. Cfr. Istituzione di rettorica e di belle lettere tratte dalle lezioni di Blair da Francesco Soave..., presso M. Merelli, Napoli, 1812 – tomo III, p. 117.

  11. Paolo Isotta, I diamanti della corona – Grammatica del Rossini napoletano, in «Mosè in Egitto» - «Moïsè  et  Pharaon»,ed. UTET, Torino, 1974.

  12. Gioachino Rossini – Lettere e documenti –  a cura di Bruno Cagli e Sergio Ragni, Arti Grafiche Editoriali, Urbino 1992, p. 44.

  13. P. Maroncelli,  Notizia intorno agli studi..., cit., p. 415. Parlando di “duetto”,  Maroncelli si riferisce forse  alla scena III del III atto, in cui Polissena, afflitta per la morte di Achille, effonde il suo dolore nell’aria “La luce detesto...”, intercalata, a modo di duetto, dal coro di donzelle “Sull’ara che al cielo....”.

  14. Questa scena è ben risolta sia dal punto di vista drammatico sia dal punto di vista musicale.  

  15. Cfr. Elogio storico del Cavalier D. Domenico Cotugno, ed. Stamperia Reale, Napoli, 1823, pp. 42-3.

  16. Mauro Amato – La biblioteca del conservatorio di “San Pietro a Majella” di Napoli: dal      nucleo originale alle donazioni di fondi privati ottocenteschi in Francesco Florimo e l’Ottocento Musicale – Atti del Convegno – Morcone 19-21 aprile 1990, a cura di Rosa Cafiero e Marina Marino, ed. Jason, Reggio Cal., 1999, vol. II, p. 653 

 

 

 

CAPITOLO QUINTO

 

 

  1. Mario Mazzucchelli, Murat re di Napoli, ed. Longanesi, Milano, 1970, p. 76.

  2. Cfr.«Monitore delle Due Sicilie» - anno XIX, lunedì, 8 febbraio 1813),

  3. P. Maroncelli,  Notizia intorno agli studi..., cit., p. 415.

  4. Cfr. «Enciclopedia dello Spettacolo», Roma, 1960, s.v., Zingarelli, p. 2140.

  5. Ettore Santagata, Il Museo Storico Musicale di S. Pietro a Majella, Napoli, 1930, pp. 80-1.

  6. Cfr. Francesco Florimo e l’Ottocento Musicale..., cit., vol. II, p. 756n.

  7. F. Florimo, Cenno storico..., cit., p. 638.

  8. F. Florimo, La Scuola Musicale..., cit.,vol. II. P. 106.

  9. P. Maroncelli, Notizia intorno agli studi..., cit., p. 415.

  10. P. Maroncelli, Ibid., pp. 415-16.

  11. F. Florimo, Cenno storico..., cit..., p, 637.

  12. P. Maroncelli,  Notizia intorno agli studi..., cit., p. 416.


 

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      Si trascrive una recente e dettagliata biografia di Manfroce compilata da Carmelo Neri,  noto studioso di Vincenzo Bellini,

di cui si è occupato in numerose e apprezzate pubblicazioni.
       Nato  a  Giffone  (RC) il 20 settembre 1943, vive a  Motta

Sant’ Anastasia,  in  provincia  di  Catania.  Si  è laureato in 

Lettere   Moderne    presso   l’Università    degli    Studi    di

Messina  con  la  tesi  Nicola  Antonio  Manfroce  musicista   calabrese del secolo XIX, assegnatagli dal  Prof. Salvatore Pugliatti, allora rettore di quell’Ateneo.

        Il testo  qui  riprodotto ha  subito modifiche, aggiunte  e aggiornamenti  vari, rispetto  a quello  pubblicato sulla Rivista Calabria Sconosciuta» (fascicoli 124-128 – 2009-2010).
Eccone il contenuto:

Biografia

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